Agosto 1998
L’estate stava finendo e mamma
e papà per festeggiare il loro venticinquesimo anniversario di matrimonio
avevano deciso di fare un viaggio in terra straniera a bordo della loro audi
grigia metallizzata.
Io, Benedetta e Sveva avremmo
avuto casa libera per dieci giorni, il che voleva dire libertà su tutti i
fronti: nessun controllo, nessuna ramanzina, nessun rimprovero. Come tutte le
cose finiscono, anche per noi la pacchia fece capolinea: era arrivato il
momento di riordinare ogni cosa, in modo tale che non potessimo destare nei
nostri genitori alcun sospetto sulla nostra “tranquilla” esistenza. Il telefono
cominciò a squillare:
“Matilde, rispondi tu?” gridò
dalla cucina Benedetta, la mia sorella maggiore; corsi in sala da pranzo e
alzai la cornetta: “Pronto?”
Dopo pochi secondi misi giù la
chiamata, il mio viso era diventato improvvisamente bianco, guardai le mie
mani: tremavano e la voce sembrava essere svanita nel nulla, non un suono, non
una parola; avrei voluto gridare, ma non ci riuscivo. Il mio corpo era
completamente paralizzato.
“Chi era?” chiese Benedetta,
entrando in sala con in braccio Sveva, l’ultima arrivata.
Capì che era successo
qualcosa: “Mamma e papà stanno bene?” domandò con voce tremante, le afferrai la
mano, gliela strinsi forte: “Un ubriaco alla guida di un camion li ha presi in
pieno… - ci fu un attimo di silenzio agghiacciante - Benedetta, li ha presi in
pieno!!! Hai capito?? – il tono della mia voce si fece sempre più alto – sono
morti!!”
Benedetta sentì il nodo che
aveva nello stomaco stringersi sempre di più e i palmi delle mani farsi ora
freddi, ora sudati: portò Sveva nella sua stanza, la mise tra i cuscinoni
recintati della Fisher- Price. Lei era così piccola, così dolce, così indifesa,
così sfortunata che non avrebbe mai potuto conoscere le persone che esattamente
un anno e tre mesi prima le avevano donato la vita. Benedetta la guardò per
qualche secondo, poi gli occhi si appannarono e l’immagine perse la sua
nitidezza.
Tornò in sala da pranzo: ci
guardammo e scoppiammo in un pianto disperato. Era bastato un istante perché
ogni cosa cambiasse per sempre. Benedetta prese dalla mensola la cornice di
vetro che proteggeva una delle tante foto della nostra famiglia. La fissò, con
una mano coprì i volti di mamma e papà e poi guardò cosa rimaneva di quella
famiglia: una ragazza di ventiquattro anni, con una laurea in economia e un
futuro ancora incerto, una ragazza di diciassette anni e una bimba di un anno e
un mondo da scoprire. Con rabbia la gettò a terra e
la cornice si spaccò in mille pezzi, io, sconvolta, mi infilai la felpa e senza
dire una parola uscii di casa.
Benedetta oltrepassò i
cancelli del parcheggio dell’ospedale San Paolo: lasciammo il parcheggio
sotterraneo per dirigerci verso l’obitorio. Nessuna delle due parlò mentre
percorrevamo il corridoio.
“Eccoci” Benedetta indicò la
doppia porta con la scritta “Obitorio – per entrare schiacciare il pulsante
giallo sulla destra”
“Non so se ce la faccio!”
dissi, facendo un passo indietro; Mia sorella mi prese la mano: “Non sei
costretta a farlo, posso andarci da sola!”
Benedetta premette il
pulsante:
“Sì?” una voce gracchiò nel
citofono;
“Sono Benedetta Casale e sono
qui per riconoscere i corpi dei miei genitori: Filippo Casale e Giula Necchi”
balbettò, facendosi forza;
Le porte si aprirono, io non
mi mossi: Benedetta si girò verso di me: “Aspettami qui, faccio il prima
possibile!”
Le porte automatiche si
stavano per chiudere, quando mi infilai nella sottile fessura, prima che fosse
troppo tardi: “Non potevo farti andare da sola” dissi con gli occhi stracolmi
di lacrime, Benedetta accennò un sorriso.
“E ora da che parte andiamo?”
domandai, guardandomi intorno, pochi istanti e un’infermiera ci comparì
davanti.
“Seguitemi!” ci invitò. Ci
spostammo in un lungo corridoio illuminato da luci intermittenti al neon:
“Che posto raccapricciante e
che odore orribile!” sussurrò Benedetta, io le strinsi il braccio.
“Ecco, se volete aspettare un
attimo qui…” l’infermiera entrò nell’ultima stanza infondo al corridoio, poco
dopo uscì dalla stessa stanza, un uomo piuttosto alto e barbuto che indossava
un camice verde;
“Voi siete Benedetta e Matilde
Casale, dico bene? – annuimmo– “Mi dispiace tanto per questa tragedia!”
“Dottore, ma cos’è successo?
Come sono andate realmente le cose?” domandò Benedetta tutto di un fiato;
“Un ragazzo alla guida di un
camion era completamente ubriaco, il suo veicolo ha sbandato ed è finito nella
corsia opposta…la coda del camion ha mandato fuori strada la macchina dei
vostri genitori.”
“Hanno sofferto molto?”
“No, è successo tutto in una
frazione di secondi!” Ci fu una
pausa di silenzio: “Siete pronte? Vi avverto che non sarà una cosa semplice, ma
ce la farete!”ci rassicurò prima di voltarsi per entrare.
I nostri genitori giacevano
supini, su degli squallidi carrelli di metallo: l’unica parte dei loro corpi
non coperta dal lenzuolo era il volto così bianco, quasi spettrale con la bocca
serrata e le labbra bluastre. Mi misi una mano davanti alla bocca per cercare
di soffocare il pianto, Benedetta annuì con la testa per confermare che erano
mamma e papà. Li guardammo un’ ultima volta, poi il medico coprì con il
lenzuolo anche la testa.
“Andiamo!” la esortai;
“Aspettate, ho bisogno di una
vostra firma e poi qui ci sono gli oggetti personali dei vostri genitori!”
disse l’infermiera porgendoci un sacchetto trasparente. Lo afferrai con rabbia:
“Ti aspetto qui fuori!”
Benedetta firmò il documento e
mi raggiunse.
Notai che nella busta
trasparente c’erano anche le loro fedi: “Tieni, non lo voglio portare io!” lo
porsi a Benedetta e mi infilai in macchina. Il silenzio venne interrotto dalla
vibrazione del mio cellulare: un messaggio ricevuto. “Qnd hai voglia di
vedermi, chiamami, che vengo immediatam. Ti amo, pulce, ora più che mai!” “Ci ved in mansarda tra
mezzora.” Poi spensi il cellulare.
“E ora cosa facciamo?”
Benedetta era concentrata
sulla guida: “Cerchiamo di sopravvivere!”
Una volta arrivata a casa,
salii in mansarda: seduto sul gradino c’era Filippo, appena mi vide si alzò e
mi venne in contro. Gli afferrai una mano, con l’altra aprii la porta.
Entrammo: incominciai a baciarlo, sapevo che in quei baci c’era rabbia e c’era
forza, mi abbandonai, stringendomi a lui, gli slacciai i bottoni della camicia
e il respiro di entrambi si fece affannoso: “Ce l’hai?” domandai;
Filippo capì immediatamente
cosa intendessi: “No e non mi sembra nemmeno il momento più adatto!”
“Non importa lo faremo senza!”
Le mie labbra gli sfiorarono
tutto il corpo. Mentre i miei grandi occhi marroni lo fissavano, mi tolsi la
felpa e poi la maglietta: “Accarezzami
tutta!”
Filippo fece un respiro profondo,
mi bloccò la mano che stava toccando il suo petto;
“Non posso!”
Lo guardai con odio: “Sai cosa
ti dico: vaffanculo!” gli diedi una spinta per allontanarlo.
Ma lui non ne voleva sapere di
starmi lontano, perciò si avvicinò di nuovo e mi strinse forte: spostò
delicatamente i capelli che mi coprivano l’orecchio: “Ti amo, ti amo, ti amo!”
Scoppiai in lacrime: “Mio Dio
è un incubo!” gridai disperata; Filippo continuava a tenermi
stretta nel suo abbraccio cercando di trasmettermi tutta la comprensione che a
parole non sarebbe stato in grado di comunicare.
Ora potete capire perché iniziai a pormi con insistenza, quasi
ossessiva che cos’è la felicità, ed era solo l’inizio, in quel momento intuii
che la mia vita sarebbe stata una lunga sequela di addii, più o meno dolorosi e
che, nella maggior parte dei casi, la parola fine sarebbe stata posta a
prescindere dalle mie intenzioni.
Camminavo in una strada
affollata e rumorosa, eppure non percepivo quel caos: era come se la testa
fosse completamente scollegata dal corpo e quest’ultimo si muovesse per
inerzia, una strana sensazione che mi estraniava dal mondo circostante. Un uomo
ben vestito mi avvertì che qualcuno dall’altra parte della strada mi stava
chiamando: io non mi ero accorta di nulla. Era Benedetta. Ringraziai lo
sconosciuto e facendo attenzione ad attraversare, raggiunsi la Polo nera,
parcheggiata in seconda fila.
“E’ da mezz’ora che urlo e
provo a chiamarti al cellulare, ma tu niente!”
“Scusami, ero distratta!”
Tornai nel mio mondo con lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Erano solo le
sette di sera e il sole stava già cedendo il posto a qualche stella sparsa in
un cielo troppo azzurro, quasi monotono: ciò significava che presto l’autunno
avrebbe preso il posto di questa strana estate, iniziata carica di buoni
propositi e terminata nel peggiore dei modi possibili.
Il giorno del funerale la
chiesa di S. Eufemia si riempì di gente. Io e le mie sorelle ci sedemmo in
prima fila. Vedere tutte quelle persone mi infastidì: molte non le avevo mai
viste e altrettante era scomparse dalla nostra vita, già da tempo. Eppure,
sarebbero stati tutti a nostra disposizione. Sì, per quanto tempo? Un’ora? Due?
Un giorno? Sicuramente non di più.
E poi? E poi la triste desolazione, l’amara consapevolezza di essere soli.
Sentii le lacrime scorrere
sulle mie guance calde e dal nervoso cominciai a strapparmi le pellicine delle
unghie fino a farle sanguinare. Mi sembrava tutto così surreale.
Alla fine della cerimonia vidi
Benedetta camminare lenta e rigida dietro il feretro e dietro di lei un fiume
di persone. Io rimasi lì seduta, immobile, a guardare come la famiglia che
avevo sempre conosciuto fosse cambiata per sempre. Mamma e papà non sarebbero
mai più tornati e noi ce la saremmo dovuta cavare senza di loro… Come? Non lo
so.
I giorni che precedettero
l’inizio della scuola, mi sembrarono confondersi l’uno con l’altro. Di giorno
mi sentivo morta dentro, svuotata completamente: non parlavo, non mangiavo,
l’unica cosa che facevo era trascinarmi dal letto alla poltrona, dalla poltrona
al letto. Di notte facevo sempre lo stesso sogno: i miei genitori distesi su
quei freddi carrelli dell’obitorio. Non riuscivo a levarmi dalla testa
quell’immagine. Mi svegliavo grondante di sudore, con il cuscino zuppo di
lacrime e la testa che mi pulsava da quanto avevo pianto.
azz... :-(
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