Foto di Beatrice Barbieri |
Shakespeare disse: "Quando si nasce si piange perchè ci si ritrova in questo palcoscenico di matti"
Allora che i neonati abbiano
maggior consapevolezza di ciò che loro spetta, di quanto possa averne un
adulto? O forse piangono perchè già sanno che il loro mondo fatto della stessa
sostanza dei sogni prima o poi diventerà sempre più piccolo per far spazio a
quello reale? E così succede
quando smetti di credere nella magia, nelle favole, in quella montagna di
favole che ti hanno raccontato con insistenza nei primi anni di vita. Ti accorgi che la tua vita o quella dei tuoi
amichetti è più imperfetta di quanto potevi immaginare: a scuola c'erano i
figli dei separati, dei divorziati e poi c'era il caso ancora più eclatante dei
gemelli Capalbi, il cui padre se n'era addirittura andato di casa. E poi c'ero
io, figlia di genitori uniti. Appartenevo a un genere raro e ne ero
consapevole. I miei, in confronto alla maggioranza, erano "adulti",
nonostante avessero fatto una figlia a diciotto anni. Ricordo episodi del tipo:
io ospite a casa di Veronica e ad un certo punto mi trovo in mezzo a una madre
e una figlia che litigano perchè vogliono pettinare la stessa bambola. O
ancora, mi era capitato di assistere a riunioni di mamme, che appartenevano
alla categoria da me denominata delle madri fanatiche, riunioni cui mia madre
credo abbia partecipato una volta in cinque anni, dopo di che si è sempre
rifiutata, optando per partite di tennis con la mamma di Marta e di Claudia, e,
giuro, in quei momenti riuscivano a dare il meglio di loro con il gioco dei
confronti:
"Michela ha già deciso
del suo futuro, si vede che è una ragazza sveglia!"
"La prossima estate
manderò Mirco a un camp estivo per imparare l'inglese!"
Ore e ore trascorse in questo
modo: sorseggiando tazze di te e infusi vari, e elogiando i propri figli, piccole gocce di perfezione di un
mare di mediocrità.
Mia madre non era come loro:
mi coccolova, non mi faceva mancare niente, mi sgridava quando facevo le mie
cavolate e talvolta volavano ceffoni e castighi. Era però mio padre il più
severo dei due, il genitore autoritario che se si arrabbiava, tremavano i vetri
delle finestre. Insomma si completavano.
Come tutti i bambini anche io
cercavo l'approvazione di entrambi per qualunque cosa facessi: semplicemente
per il gusto di sentirmi dire, "Brava Matilde!" Credo, però, di
averci marciato troppo perchè a un certo punto hanno cominciato a dirmi brava
quando non era mia intenzione attirare la loro attenzione.
La domenica pomeriggio c'era
la partita del torneo di pallavolo: dodici piccoli nanerottoli sparsi in modo
alogico per il campo. Io ero uno di quelli. Il numero 6, della squadra con la
divisa rossa e blu e ogni volta che i miei genitori mi dicevano che mi
avrebbero accompagnato mi ripromettevo che avrei giocato la miglior partita
della storia. Avrei saltato, mi sarei buttata a destra e poi a sinistra, non
avrei mai fatto toccare la palla a terra nemmeno una volta. A ogni punto il mio
sguardo andava a cercare mamma e papà nel pubblico. Leggevo il labiale:
"Brava Matilde, non mollare!"
Poi, soddisfatta di non averli delusi tornavo a casa con il sorriso
stampato sul viso e tremendamente stanca per tutto quello sforzo fisico e
psicologico, infatti il più delle volte crollavo in un sonno profondo appena
toccavo i morbidi sedili della volvo.
Gli anni passavano e io
crescevo, cominciando a capire che quel brava Matilde, l'avrei sentito sempre
di meno, mentre: "Hai fatto il tuo dovere" sarebbe stata la
fastidiosa frase quotidiana. Ho un ricordo vivido dell'esordio di quella
battuta da copione: era passata una settimana dal primo giorno di scuola media
e la fase di accoglienza poteva considerarsi conclusa. Ecco che quindi ebbero
inizio le prime interrogazioni orali:
"Matilde Casale alla
lavagna!" disse la prof Cesarini, il mio sguardo di terrore si posò su di
lei, come per scongiurarla di cambiare vittima.
"Dai, forza: prometto che
non ti mangio!"
Mi sforzai di mostrarle un
sorriso, mi alzai e mi piazzai davanti alla lavagna.
"Allora, Matilde, vorrei
che mi parlassi della fotosintesi clorofilliana!"
Sentii i miei nervi stendersi
e i muscoli rilassarsi: fin dalle elementari era stata il mio cavallo di
battaglia. Cominciai a parlare come un fiume in piena.
"Va bene così, ho visto che hai studiato.
Portami il diario!"
Prese in mano la fatidica
penna rossa, scrisse il voto: "Distinto" seguito da uno scarabocchio,
la sua firma.
Tornata a casa, completamente
euforica per aver inziato col botto mi precipitai in cucina dove mia madre
stava preparando il pranzo:
"Indovina? interrogazione
di scienze: distinto... mi fai un regalo, vero?"
Mia madre mi guardò e mi
sorrise: "Matilde, hai fatto il tuo dovere... lo hai fatto molto bene, ma
questo non significa che tu debba essere premiata!"
"Ma mamma?!?!"
"Guarda che se la mamma
fa bene il suo lavoro, il suo capo non le fa un regalo, capisci cosa
intendo?"
Abbassai la testa, lasciai
scorrere la mano sui cassetti e la fermai al penultimo: quello delle merende.
Afferrai un pacchetto di crackers e lo mangiai in silenzio.
In quel momento entrò mia
sorella, mi diede un pizzicotto sulla guancia e mi disse: "Benvenuta nel
club!" infastidita, mostrai una smorfia. La guardai, era alta,
tremendamente alta, in confronto alla sottoscritta. Anche io volevo crescere e
ogni settimana costringevo papà a misurare la mia altezza, rigorosamente e per la gioia della mamma, sullo stipite
bianco della porta di camera mia. Meno male che presto, o quasi, ci fu la mia
rivincita: a sedici anni ero alta uno e settantuno, un centimetro più di lei,
non molto, ma sufficiente per averla vinta.
Benedetta ha sempre avuto il
fascino della sorella maggiore e il senso di eccessiva protezione del genitore.
Se queste due caratteristiche vengono ben mischiate il risultato
è un cocktail grandioso,
altrimenti fonte di infiniti litigi e discussioni. Ho in mente una serie di
parole che mi fanno venire in mente lei, non garantisco i nessi logici:
girasole, mare, giallo, pavone, Africa, pastelli, cartoline, arrosto con le mele, bicicletta,
cuscino, borse, camino, neve, arcobaleno, ma più di tutte spirito libero, il
motto dai lei inventato e con cui
è cresciuta è: "Fai oggi quello che sai che non puoi fare domani, ma se
non c'hai voglia e nessuno ti rompe, che te frega, rimanda a domani!"
Sono cresciuta con la
convinzione di dovermi arrangiare, evitando di essere di peso agli altri e di
non voler deludere le persone a cui voglio bene: la mamma, il papà, le sorelle,
gli amici. Loro sono sempre stati il primo posto, io il secondo, la mia
insicurezza il terzo.
Spesso mi domando se pretendo
molto da me stessa, perchè non posso pretendere dagli altri, o perchè non ho proprio
di meglio da fare...di una cosa sono certa: la quantità di energia che spreco
nelle continue sfide con me stessa, potrebbe essere utilizzata per azionare
l'impianto elettrico di casa mia sette giorni su sette per l'intero anno.
Dicono che ci sia sempre tempo
per capire e imparare. Non ho fretta.
meglio! ;-)
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