CAPITOLO 3 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri

Alessandro Baricco disse: “Accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni, e poi la vita risponde.”



Un respiro profondo. Solo un respiro profondo. Infondo non si trattava di una cosa nuova… sì lo era, ma solo in parte. Era la paura del cambiamento, della cosa diversa, ignota, eccitante, ma allo stesso tempo paralizzante.
Compiva i soliti gesti quotidiani, ma questa volta dedicando loro maggior attenzione. Guardò nervosamente l’orologio: 7.15.
“Matilde, ti sei alzata dal letto?”
Risposi con un gemito.
Si guardò allo specchio: nella mano sinistra teneva un ometto, con appesa una gonna a pieghe e nella mano destra, un ometto con appesi un paio di pantaloni neri. La camicia bianca, che indossava, sciancrata sui fianchi, stava bene con entrambi:
“Decisamente la gonna: per il giorno del colloquio devi essere perfetta!” esclamai, comparendo silenziosamente alle spalle di Benedetta, con in mano due tazze fumanti di caffè, ne lasciai una sulla mensola, entrai in bagno e chiusi la porta. Lei bussò:
“Quelle nere con il tacchettino basso, senza calze! Hanno detto che oggi sarà una giornata molto calda..”
“Ti adoro, quando mi leggi nel pensiero.”
Con il sorriso stampato sul viso, ritornò nella sua stanza, assaporando il caffè e finendosi di preparare.
“Come sto?”
“Sei perfetta!”
“Cosa ti ho promesso perché rispondessi così alla mia domanda?”
Sorrisi: “Se non ricordo male: una settimana ai Caraibi!”
“Solo? Credevo almeno un mese! Dai, andiamo!”
Uscimmo di casa e con passo svelto ci dirigemmo verso la Polo parcheggiata in garage. Tutti dicevano che ci assomigliavamo molto: stessi occhi profondi, stesso sorriso, due fossette ai lati della bocca, e solo sette anni di differenza. 

Prima fermata: l’asilo nido di Sveva. Seconda fermata: il mio liceo. Stava per cominciare un nuovo anno, l’ultimo che avrei trascorso in quella scuola e la cosa mi spaventava parecchio, dal momento che l’avrei dovuto affrontare con un vuoto incolmabile, che, nove volte su dieci, mi provocava una fitta dolorosissima al cuore.
“Buona giornata: ricordati che ho lasciato nel solito cassetto della cucina i soldi per la tintoria, ci vediamo per l’ora di cena! Toast?”
“Benny, oggi è Lunedì ed è la giornata sabbatica della nostra tintora e i toast sono finiti, come tutto il resto!”
“Come non detto! Allora vedrò di fare un salto al supermercato!”
Aprii la portiera, prima di scendere mi voltai verso Benedetta e le diedi un bacio sulla guancia: “In bocca al lupo!”
“Crepi!” incrociò le dita e sospirò profondamente.

Mi trovai in mezzo ad un vortice impazzito di studenti che si muoveva disordinatamente tra i corridoi della scuola: mi guardai intorno. Tutto era uguale a come lo avevo lasciato tre mesi prima: stessi muri ingialliti, stesse porte rotte, stesse scritte nel sottoscala, stesse aule lasciate al loro triste destino, l’unica che non sembrava essere la stessa ero io .
Aumentai il passo per raggiungere la 5C il prima possibile ed evitare di essere fermata dall’intero corpo insegnanti. Stavo per voltare l’angolo quando mi scontrai improvvisamente con una donna, piuttosto giovane, ma mai vista prima; a causa dell’urto le feci cadere a terra la cartelletta con tutti i suoi documenti. Mi bloccai: “Scusi, non l’avevo vista!” dissi con tono sinceramente dispiaciuto;
“Non ti preoccupare, è tutto ok! Anche io questa mattina non ci sono molto con la testa!” rispose sorridendo, poi proseguimmo in direzioni opposte. Mi voltai, incuriosita di sapere chi fosse, pochi istanti dopo vidi il vicepreside affiancarla:
“Buon giorno, lei dev’essere Michela Ferrari, la nuova insegnante di lettere e storia della 5C, piacere io sono Carlo Marchesi, vicepreside di questo liceo!” le allungò la mano, lei, con aria decisa, gliela strinse: “Esatto, sono proprio io, in carne ed ossa!”
“La stavamo aspettando con ansia, mi segua, le presento qualche suo collega!”

Fu allora che intuii che da quel momento, il cambiamento sarebbe stato all’ordine del giorno.


Varcai la soglia della nuova classe, che rispetto a quella dell’anno prima aveva solo una lavagna più grande: diedi una rapida occhiata, l’unico banco libero rimasto era in prima fila davanti alla cattedra. Sorrisi perché mi vennero in mente le alzatacce degli anni precedenti per arrivare a scuola con un certo anticipo e occupare i posti migliori. Quest’anno la cosa non mi sfiorò nemmeno lontanamente. Non aveva alcuna differenza, un posto valeva l’altro, così appoggiai la borsa sul banco e mi appollaiai sul calorifero, insieme agli altri miei compagni. Quando mi avvicinai avvertii un loro lieve imbarazzo, non sapevano cosa dirmi, chiedermi delle vacanze non aveva molto senso; fui io a rompere il ghiaccio, cercando di tirar fuori la Matilde spiritosa di sempre, quella che faceva battute e riusciva a strappare un sorriso anche al più serio e secchione della classe. Feci molta fatica: ero una ridicola e triste caricatura di me stessa.
Per fortuna la campanella non tardò a suonare, così potei smettere quella farsa veramente penosa.
Eravamo in ventidue in classe: ventidue ragazzi in piena adolescenza e con gli ormoni che corrono a velocità supersoniche, da tenere a bada. Una sagoma comparve sulla porta, scossi la testa, non mi ero sbagliata, avevo sentito bene:
Si guardò intorno, anche se c’era ben poco da vedere dal momento che si trattava di un’aula piuttosto impersonale, in cui l’unico oggetto che spezzava la monocromia dei muri era un calendario risalente all’anno precedente.
“Salve ragazzi, mi chiamo Michela Ferrari, sono la vostra nuova insegnante di lettere e storia. Dovremo passare insieme un bel po’ di ore alla settimana, pertanto cerchiamo di venirci incontro il più possibile e poi quest’anno dovrete affrontare la tanto temuta maturità, quindi si dovrà lavorare sodo!”
“Bella prof, ci dà tutti 8 e faremo gli studenti modello!” la voce proveniva dall’ultima fila;
“Innanzitutto ti ringrazio per l’aggettivo bella, sono contenta di piacerti, ma purtroppo non sei il mio tipo! – a questa esclamazione, il resto dei compagni scoppiò in una grassa risata – Per quanto riguarda il voto, l’8 ve lo darò sicuramente, vi darò anche 9 e 10, sì, ma devo vedere impegno da parte vostra! Tu sei?”
“Il boss, ma gli amici mi chiamano Filo!”
“Ascolta boss: non sono tua sorella, né una tua amica, sono la tua insegnante e come tale esigo il rispetto. E il rispetto è una cosa reciproca: io rispetto te e tu rispetti me… Allora, tu sei?”
“Filippo Panni”
“Bene così, vedo che mi hai capito. E la stessa cosa vale per tutti voi, intesi?”
Alcune teste si mossero in segno di approvazione, nessuno però osò emettere un “Sì”, uno solo ebbe il coraggio di dire “No”
“Chi ha detto no?”
“Io! – disse una voce proveniente dal fondo della classe - mi chiamo Matteo Casini. Non parli di rispetto reciproco: voi insegnanti, avete la capacità di fare discorsi commuoventi, parlando di rispetto, determinazione, voglia di imparare, quando in realtà ci considerate solo un branco di ragazzini stupidi: se non capiamo è colpa nostra, se sbagliamo è colpa nostra. Lodate solo i secchioni: loro sono i vostri pupilli e meritano il vostro rispetto, gli altri no. Vuole che vada avanti o esco dalla classe direttamente?”
“Sai, esiste sempre quell’eccezione che conferma la regola, ma se non mi dai un briciolo di fiducia non potrai mai saperlo.”
“Ma come posso dare fiducia a una persona che nemmeno conosco?!”
“Il mio è un consiglio, sta a te scegliere se correre questo rischio o rimanere fermo sulla tua posizione!”
Matteo si avviò verso la porta: “Dove stai andando?”
“Pensavo dovessi comunque uscire…intendo come punizione!”
“Pensavi male, torna al tuo posto.”
Stavo tranquillamente sfogliando sottobanco Vanity Fair, che Gaia, la mia compagna di banco, aveva pensato bene di portare a scuola per occupare le interminabili ore di lezione.
“Scusami, tu in primo banco, è interessante l’articolo che stai leggendo? Avevo intenzione di comprare proprio quella rivista, ma se mi dici che non ne vale la pena, risparmio, che è solo un bene!” Capii che si stava rivolgendo a me, anche se Gaia non era stata interpellata in prima persona il suo viso divampò: nel frattempo avevo gli occhi di ventun persone, puntati su di me, tipo riflettori di un palcoscenico. Ma ero tranquilla. Alzai la testa, come se niente fosse e, ammetto, con aria insolente aprii bocca, da cui però non uscì immediatamente alcun suono perché fui interrotta da lei:
“Noi ci siamo già incontrate, vero?”
“Purtroppo sì e non c’è bisogno che spenda soldi, le posso lasciare questa copia, tanto ho finito di sfogliarla.” Gaia mi diede un pizzicotto sulla gamba, come per dirmi di tacere, ma quasi non me ne accorsi.
“Mi sembrava di essere stata abbastanza chiara nell’esporre il concetto di rispetto, ma mi sbagliavo! Filippo vuoi per piacere spiegare alla tua compagna cosa significa rispettare una persona?!”
Alzai gli occhi al cielo, per fortuna non mi vide:
“Non ce n’è bisogno, so bene cosa vuol dire e non mi sembra di aver detto nulla di offensivo nei suoi confronti: ho usato un tono garbato e le ho solo chiesto se voleva la mia rivista, più cortese di così non potevo essere!”
“E’ la vostra insolenza che infastidisce, volete avere sempre l’ultima parola: ancora non avete capito che io sono l’adulta e voi siete i giovani, io ho il diritto di avere l’ultima parola, voi no!”
La campanella suonò: era già passata un’ora. Chiuse il registro: “potete uscire! Vi voglio in classe tra cinque minuti esatti, chi non c’è rimane fuori per tutta l’ora”
Mi avvicinai alla cattedra: “Lei ha preso il posto dell’unica insegnante che riusciva a essere severa nonostante i miei compagni facessero di tutto per impedirglielo! La prof Molinetti era riuscita ad avere la mia completa fiducia e ora mi ritrovo lei che cerca di fare la grandiosa con i miei compagni! Si prepari al peggio: in questa classe non avrà vita facile!”
Continuavo a fissarla negli occhi, non mi lasciai intimidire dal suo sguardo: “E’ un consiglio o una minaccia?”
“Oh prof, non mi permetterei mai di minacciarla” dissi, lasciando intravedere un sorrisetto furbo;
“Prima, in corridoio, mi avevi dato l’idea di essere una ragazza tranquilla…” lasciò in sospeso la frase;
“La prof Molinetti mi ha insegnato che non bisogna fidarsi della prima impressione, perchè solitamente è quella sbagliata!” nel voltarsi intravidi proprio la prof Molinetti passare davanti all’aula, la rincorsi:
“Prof, prof!”
“Matilde, sei tu! Immagino tu abbia saputo della novità di quest’anno!”
“Già mi dà sui nervi, è insopportabile, si atteggia da gran donna, facendo la simpatica!”
“Dai, non dire così, infondo non la conosci ancora…”
“Sì, ma non è lei…” ammisi, abbassando lo sguardo;
“Non sarò più la tua insegnante, ma questo non toglie che quando avrai bisogno io ci sarò, capito?” Mi sforzai di sorridere: “Capito!”
“…Ora torna in classe che la campanella è suonata!” Mi fece una carezza, strizzò l’occhio e continuò nella sua direzione: la guardai allontanarsi poi mi girai e strisciando i piedi mi avviai verso la mia classe.
Mi fermai davanti all’aula dato che ancora era vuota e sinceramente di stare dentro con lei non mi andava molto. Nell’osservarla, mi accorsi che cercava di fare respiri profondi, come se quella agitata fosse lei, poi si passò le mani sul viso. Il silenzio venne interrotto da una suoneria assordante; la prof estrasse l’ultimo modella nokia dalla borsa: guardò per qualche istante il display, poi schiacciò un tasto: capii che rifiutò la chiamata.
Poco dopo il cellulare suonò di nuovo, questa volta il rumore era di un messaggio ricevuto. Vidi la sua mano chiudersi in un pugno. Il gesto parlava chiaro: il messaggio non era stato di suo gradimento. Per una frazione di secondi godetti.
I cinque minuti passarono: la classe era completamente vuota, la prof uscì dall’aula per vedere che fine avessimo fatto.
“Prof, i cinque minuti sono passati!” esclamò il “boss”: “Che cosa ci fa?”
“Qual è il vostro obiettivo? Mettermi alla prova? Provocarmi? Farmi andare su tutte le furie? Farmi venire la voglia di lasciare il posto a un’altra insegnante? E va bene, rimarrete fuori per tutta l’ora…tutti quanti!” Prese la sua sedia e la meise vicino alla porta. Dalla cartella di cuoio estrasse un libro: “Matilde vieni a sederti vicino a me e inizia a leggere! E voi altri state molto attenti perché quando sarà il vostro turno, dovrete essere in grado di proseguire dal punto esatto in cui è arrivato il compagno prima di voi. Se sbagliate si ricomincia da capo. Semplice no?”
“Le ricordo che siamo in quinta liceo e non in quinta elementare?”
“Ah sì, ma davvero? Sinceramente, osservando il vostro comportamento non l’avrei mai detto!”
Gli altri compagni si misero a ridere. Io no.
“Cosa ci trovate di così divertente? La vostra adorata nuova prof vi considera dei bambinetti e voi ridete?”
Improvvisamente calò il silenzio:
“Non vi considero assolutamente dei bambinetti! Il tono che poco fa ho usato era decisamente ironico!”
“A me è sembrato tutto, tranne che ironico!” dissi alzandomi in piedi;
“Dove stai andando?”
“Dal vicepreside!”
Mi guardò senza dire una parola, senza nemmeno provare a fermarmi.
“Matteo, puoi venire tu, per favore?”
Matteo prese la sedia e la posizionò vicino all’insegnante: prese in mano il libro e iniziò a sfogliarlo.

“Mamma mia, iersera, appena, ricevetti la tua buona e bella lettera.
Non dubitarne, per me il tuo grande carattere non ha segreti; anche quando non so decifrare una parola, comprendo o mi pare di comprendere ciò che tu volesti facendo camminare a quel modo la penna. Rileggo molte volte le tue lettere; tanto semplici, tanto buone, somigliano a te; sono tue fotografie.
Amo la carta persino sulla quale tu scrivi! La riconosco, è quella che spaccia il vecchio Creglingi e, vendendola, ricordo la strada principale del nostro paesello, tortuosa, ma linda.”

“Gaia, vieni tu!”
La ragazza guardò l’amica seduta accanto a lei: “Dimmi l’ultima parola che ha letto, svelta!”
“Allora Gaia, vieni?!”
Si alzò: da qualcuno sentì la parola “fotografie”.
“Perfetto!”
Con sorrisino soddisfatto si sedette, prese in mano il libro. Velocemente cercò la parola “fotografie”. Trovata. 

“…Amo la carta persino sulla quale tu scrivi!”

“Mi dispiace Gaia, ma Matteo era arrivato ben oltre! Ti tocca ricominciare dall’inizio!”
“La prego prof, non lo faccia! E’ una noia mortale, parla in maniera incomprensibile!” disse Filippo, alzandosi in piedi.
“Siediti pure, non mi farete cambiare idea. E poi cinque minuti, non sono sufficienti per poterlo apprezzare, datevi ancora un po’ di tempo!” esclamò sorridendo;
Gaia ricominciò dall’inizio: va oltre il punto in cui era arrivato il suo compagno. Stava leggendo bene, con la giusta intonazione, la prof non la interruppe.
“Irene, la sostituisci tu?”
Irene era nel panico, Gaia aveva letto più rapidamente rispetto a Matteo e non era stato semplice starle dietro, ma ci prova ugualmente. 

“…Comincio anche a credere che in commercio sia molto, ma molto difficile di fare fortuna…”

“Torna pure alla pagina prima, si ricomincia: deve piacervi proprio per volerlo rileggere così tante volte, vero Filippo?” Filippo mostrò un risolino infastidito. Irene ripartì dal principio, per la terza volta.
Finalmente suonò la seconda campanella: in un’ora la 4 C era riuscita a leggere due pagine. Sembra poco, ma avendole rilette quindici volte, era come se ne avessero lette trenta.
“Devo ammettere che è stato utile come lavoro: ho potuto conoscere quindici di voi!” disse la prof, rimettendo la sedia al suo posto.
“Credo che utile non sia il termine giusto: oserei dire devastante!” esclamò Matteo, facendo l’occhiolino alla prof.
Si capì che aveva l’aria soddisfatta: si infilò il giacchino di pelle, si mise a tracolla la cartella e si avviò verso la porta. Prima di uscire dall’aula si voltò verso i ragazzi: “Ciao 5 C, piacere di avervi conosciuto, ci vediamo domani. Se non sbaglio avremo tre ore a disposizione per continuare la nostra lettura, che ne dite?”
Sentendo questa proposta, in classe ci fu un boato di disapprovazione: “Se ci trova tutti in classe, ci promette che non ci propinerà ancora lo stesso libro?” domandaò speranzoso Filippo;
“Forse!” rispose sorridendo. Lasciò la classe e andò al bar della scuola, al piano rialzato.
La cosa sorprendente è che fece tutto questo senza accorgersi che in realtà non avevo lasciato quel corridoio nemmeno per un secondo.

L’intervallo lo passai nella classe di Irene, la mia più cara amica. Un tipo bizzarro, unico nel suo genere. Ragazza molto sportiva: pallavolista come me, lei alzatrice e io opposto, lei maglia numero 4, io numero 6. Avevamo cominciato lo stesso anno e da quello stesso anno diventammo inseparabili. Continuammo a giocare fino alla seconda liceo: in terza gli impegni si erano moltiplicati e gli orari della squadra non combaciavano con il nostro tempo libero, perciò dovemmo chiudere, a gran fatica, un capitolo fondamentale della nostra vita. Ma ci eravamo ripromesse che presto avremmo cominciato di nuovo a giocare. Ancora, però, non era successo.
“Stasera vado al cinema con mia sorella e la sua amica spagnola, quella dell’Erasmus, vuoi venire con noi?”
“No ti ringrazio, preferisco rimanere a casa con le mie sorelle”
“Siccome mi dai buca stasera, domani vieni a dormire da me, intesi socia? Non accetto un no come risposta!”
“Irene, lo sai che non è un bel momento e non mi va proprio di uscire.”
“Hai deciso di poltrire a casa? Sai che non ti fa bene, sai meglio di me che cambiare aria ti farebbe stare meno peggio di come stai!”
Irene aveva perfettamente ragione, ma lo sforzo che avrei dovuto compiere per trascinarmi fuori casa sarebbe stato troppo faticoso e io ero troppo stanca per farcela. Il mio sguardo parlava da solo: lei capì che ogni tentativo di convincimento sarebbe risultato inutile:
“Per questa volta lascio correre, ma la prossima volta non voglio sentire scuse, intese?”
Sorrisi, aveva capito benissimo, era fantastico quanto fosse empatica.
“Torno in classe! Per fortuna ancora un’ora e poi questo benedetto primo giorno finisce!” esclamai alzando le braccia;
“Resisti amica mia e ricordati che solo una rampa di scale ti divide da una persona che ti vuole un’infinità di bene, quindi per qualunque cosa, sono qui!”
“E’ bello averti così vicino!” la salutai e tornai dai miei compagni.

Finalmente la giornata era finita, Gaia mi lasciò il suo Vanity Fair, credendo di farmi cosa gradita, ma appena lasciò l’aula lo gettai nel cestino. Matteo assistette a tutta la scena e si mise a ridere:
“Matilde sei grandiosa!”
“Me lo dicono in molti!”

Matteo era stato il primo compagno di classe con cui avevo legato in prima liceo:
“Ma non ti vergogni alla tua età di portare ancora i sandali di cuoio con i buchi?”
 E’ così che mi attaccò bottone, in quel momento avrei voluto strozzarlo, anzi meglio ancora: tirargli un cartone, forse sarebbe stato l’unico modo perchè i suoi neuroni cominciassero a girare nel verso giusto. Poi pensai che una reazione del genere mi avrebbe messo solo nei guai, perciò mi limitai a dirgli: “Piacere Matilde! E se quando mi volto provi a guardare il mio fondoschiena ti giuro che la lattina di coca-cola che hai in mano, magicamente si rovescerà sui tuoi pantaloni, che mammina ti ha comprato!”
Si mise a ridere e mi strinse la mano: “Piacere Matteo!” appoggiò lo zaino sul banco accanto al mio: “Scusami, ma non mi sembra di averti chiesto di sederti vicino a me!”
“Lo so, ma credo che abbiamo cominciato col piede sbagliato e l’unico modo per rimediare è conoscerci e se sei la mia compagna di banco la cosa sarà ancora più semplice!”
“Che marpione! Gli amici marpioni non sono proprio quel genere di amici che fanno per me!”
“Tranquilla non sono un marpione e lo scoprirai tu stessa!”
Sembrava sincero, mi fidai delle sue parole: spostai la sedia, come per dire “il posto è tutto tuo”, lui prese posto e la prima cosa che mi disse una volta occupata quella postazione fu: “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio!” Gli diedi un pizzicotto sulla spalla. Da quel momento diventammo per la classe e sottolineo, solo per la classe: Amore e Psiche.

Mi mise il braccio attorno alla vita, mi diede un bacio sulla guancia e poi schizzò via: prima di scendere le scale si voltò un’ultima volta: “Sai che puoi contare su di me!” Si girò nuovamente e corse giù per le scale.
Ero al piano terra per ritirare dei moduli in segreteria, non feci in tempo a svoltare l’angolo quando incontrai e mi scontrai per la seconda volta con la Ferrari: percepii la forte tensione che c’era tra noi.
“Hai detto tutto al vicepreside? Gli hai detto quanto sono mostruosamente perfida e malvagia?”
La mia mano si strinse in un pugno, non dovevo cogliere quella provocazione, se no sarebbe finita male…per me. Gli occhi dell’insegnante mi fissavano, quegli occhi nocciola non volevano mollarmi, neanche per un secondo: scossi la testa, mi voltai e proseguii per la mia strada. Poverina, non aveva capito proprio niente. Alle mie spalle sentii la voce de vicepreside che la chiamava:
“Mi deve parlare di Matilde Casale, vero?”chiese lei, convinta di sentirsi dire sì.
“Matilde Casale??? No, perché?”
“Non è venuta da lei?” domandò stupita;
“Eh no, stranamente non si è fatta ancora vedere: decisamente bizzarra come cosa, dal momento che è con il primo giorno di scuola che comincia le sue crociate di pace e di giustizia”
“Accidenti!” esclamò, credendo di non essere sentita;
“Tutto bene? E’ successo qualcosa?”
“Sì sì tutto bene” rispose, rimanendo sul vago.
Uno a zero per la sottoscritta. Sapevo che non mi avrebbe mai chiesto scusa per tutte quelle insinuazioni, ma sapevo anche che ero riuscita a farla sentire in colpa e questo, per ora, poteva bastare.
Appena misi piede fuori dal liceo, tirai un sospiro di sollievo. Ero sopravvissuta al primo giorno, impresa ardua, ma ce l’avevo fatta e sentivo nell’aria il profumo della vittoria.

Finalmente ero a casa. Sveva stava giocando. Io ero stanca, molto stanca e profondamente triste, ma non piansi. Mi buttai sul letto e fissai il soffitto su cui avevo attaccato il poster di Scamarcio, il mio pensiero, però volava in tutt’altra direzione. Ad un certo punto il pianto disperato di Sveva interruppe quell’attimo di pace, i singhiozzi si fecero sempre più forti. “Sveva, piantala!” urlai, mettendo la testa sotto il cuscino. Niente da fare: quel suono assordante non smetteva. Ero io che avrei dovuto prenderla in braccio e calmarla, non c’era più la mamma che lo faceva. Mi trascinai a fatica nella sua stanza: “Basta piangere!” la guardai. Sveva non ne voleva sapere: “Dimmi, che cosa vuoi da me?? Non sono tua madre! Non so cosa deve fare una madre e non voglio saperlo!” Sapevo che stavo gridando e che stavo esagerando: non era, certo, colpa sua, di quella piccola creatura innocente, se ci trovavamo in quella situazione, probabilmente avrebbe voluto solo che le braccia della sua mamma la coccolassero come succedeva un tempo.
Mi sedetti accanto a lei, la presi in braccio, la strinsi forte, cercando di trattenere le lacrime, ma non ci riuscii. Entrambe volevamo la mamma, ma mentre a Sveva sarebbero bastati pochi minuti perché si calmasse e cominciasse di nuovo a sorridere, a me non sarebbe bastata una vita.
Drin-drin-drin, il citofono iniziò a suonare con insistenza. Sveva si era appena tranquillizzata: non poteva essere Benedetta, lei aveva le chiavi.
“Sono Filippo!”
Filippo- pensai– che stupida mi ero totalmente dimenticata di rispondere al suo messaggio.
“Sali!”
Pochi istanti dopo il ragazzo dai grandi occhi verdi e sognatori e i capelli neri come la pece, entrò in casa: non avevo il batticuore, non mi sudavano le mani e peggio ancora non avevo voglia di baciarlo. Non me ne capacitavo: fino a tre settimane prima Filippo era tutto ciò che mi bastava per stare bene, era la pillola del buon umore, rappresentava il mio mondo in cui mi potevo rifugiare quando il mondo reale si faceva troppo stretto. Non avrei resistito un giorno senza poterlo vedere, baciare, toccare e ora improvvisamente il cielo si era oscurato, celando quel sole che brillava e mi faceva brillare di luce riflessa.
Mi ero innamorata di Filippo l’estate della seconda liceo, ma come spesso accade, lui amava un’altra per di più: alta, bionda e con gli occhi azzurri, un’anti-Matilde, così l’aveva definita Benedetta. Anche lui era di Milano, ma d’inverno non ci vedevamo molto. Accadde poi che finalmente si accorse di me: era il 25 Agosto dell’estate successiva. Gli confessai che il mio cuore batteva per lui già da tempo e lui, sentendo queste parole, prima sorrise, poi mi baciò. Per tutti, era una notte qualunque: per me fu la notte più magica dei miei primi sedici anni. Rimasi tra le sue braccia per tutta la sera, e non smettemmo nemmeno per un secondo di guardare quella cupola stellata che era il cielo in una notte di mezza estate. E ora, un anno e diciassette giorni dopo, quella che credevo essere la mia più grande certezza, stava perdendo lentamente quel connotato.
Filippo si avvicinò per darmi un bacio, ma si accorse che qualcosa non andava: “Sono arrivato nel momento sbagliato?”
“Sì, cioè no –risposi confusamente - è che Sveva si è appena addormentata!”
Mi prese la mano: “Tra noi è cambiato qualcosa…” Dal tono usato non capii se si trattasse di una domanda o una affermazione.
Abbassai lo sguardo, non sapevo cosa dire: “Sono solo molto stanca – cercai di giustificarmi, anche se suonava più come un autoconvincimento – e credo di aver bisogno di molte, moltissime coccole!”
Filippo si lasciò sfuggire un respiro di sollievo e mi strinse forte tra le sue braccia. Sentii il suo profumo, era confortante perché lo conoscevo. Mi accarezzò i capelli, come solo lui sapeva fare: era un gesto tenero e delicato. Ci sdraiammo nel mio letto, lui continuava a tenermi stretta, per amore e per paura.

Aspettai sveglia mia sorella: finalmente alle undici sentii il rumore delle chiavi girare nella serratura. Lei non sapeva che fossi ancora in piedi, perciò compì ogni gesto silenziosamente e, senza accendere alcuna luce, andò in camera sua. La raggiunsi.
“Cosa ci fai ancora alzata?” mi domandò, buttando la borsa sul letto;
“Volevo sapere com’era andata!” Mi accorsi che c’era uno strano odore: “Benny, ma tu hai bevuto!?” domandai incredula. Lei si mise a ridere.
“Mi dici che fai tardi perché devi affogare i dispiaceri nell’alcool?” Continuava a non dire niente, stava lì in piedi e mi fissava, poi, finalmente prese la parola:
“Oggi è stata una giornata memorabile: il colloquio è andato di merda, ho bucato la gomma della Polo e per finire mi ha chiamato la Banca, e mi ha detto che entro la fine di Settembre dobbiamo sanare un debito di 200.000 euro, che carinamente papà ci ha lasciato. Matilde dobbiamo dire addio a questa casa, dobbiamo dire addio alla vita che conoscevamo!” Il sorriso dal volto di mia sorella sparì, lasciandole un’espressione di profonda rassegnazione.
Non ci potevo credere, non ci volevo credere: questa casa era la scatola dei miei ricordi, era l’unica cosa che mi legava indissolubilmente al passato, a mamma e papà. Togliermi tutto questo, voleva dire strapparmi il cuore e calpestarlo.
“Non è possibile! Papà non può averci lasciato un debito così grande e noi non possiamo vendere questa casa…è la nostra casa!”
Non sapeva cosa dire: era scioccata e sconvolta quanto me. Scoppiai in lacrime. Erano lacrime grosse e pesanti che cercai di asciugare con il palmo della mano. Benedetta si sedette a terra, con la schiena contro il muro e lo sguardo addolorato perso nel vuoto. Mi sdraiai con la testa sulle sue ginocchia e continuai a piangere.

Sebbene la perdita improvvisa dei nostri genitori fosse stata, ovviamente, la cosa peggiore, anche tutto il resto, il fatto che stavamo per perdere la casa, la mancanza di soldi, la scuola, non c’era affatto d’aiuto.







Nessun commento:

Posta un commento