CAPITOLO 21 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri
Abraham Lincoln disse: "La miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta."



LUGLIO 2004

 

Il giorno della laurea arrivò come tutti I giorni con la differenza che mi alzai prima di sentire la sveglia. Non fu un sonno tranquillo e sereno: feci fatica ad addormentarmi e durante la notte I miei occhi si aprirono almeno una quindicina di volte se non di più, giusto per assicurarmi che la sveglia dovesse ancora suonare. E poi finalmente l’alba: dormivano ancora tutti; senza fare troppo rumore sgattaiolai in bagno  e aprii I rubinetti della doccia. Dovetti aspettare qualche secondo prima che l’acqua diventasse calda. Colpa di uno scaldabagno troppo vecchio.
Mi spostai in soggiorno con l’ascigamano arrotolato sulla testa, ancora calda di vapore e con le guance rosse: Benedetta e Giorgio erano ancora nel mondo dei sogni. Da quando si erano sposati, il nostro bilocale si era fatto più stretto, ma non ne feci un problema. Mi rallegrava vedere gente girare per casa, un pò meno il disordine che l’unico maschio di casa era in grado di creare.
Le loro nozze vennero celebrate il 14 Giugno del 2003, nella chiesa dove si sposarono I nostri genitori: io ebbi l’onore di essere la testimone della sposa, mentre Sveva portò le fedi all’altare.La chiesa era addobbata con due mazzi enormi di rose bianche e fiori di arancio e tante piccole copie degli stessi mazzi a fianco ad ogni panca di legno. Infondo alla navata laterale c’era il fotografo impegnato a montare I faretti, una volta sistemati prese posto in prima fila in attesa di dare inizio agli infiniti scatti che avrebbero immortalato per sempre quel momento. Benedetta arrivò a bordo del vecchio maggiolone decappottabile che apparteneva alla sua migliore amica, l’altra testimone. L’aiutai ad uscire, facendo attenzione allo strascico ingombrante: era bellissima. Quando Giorgio vide la sposa, I suoi occhi brillarono di gioia e commozione, respirò profondamente: era pronto a prometterle eterno amore.


“Dovete sopportarci ( quel plurale si riferiva anche a  Sveva) ancora per poco!” pensai. Da quando avevo cominciato l’università, mi ero trovata sempre qualche lavoretto da fare: babysitter, hostess, ripetizioni, cameriera, per un paio di estati feci anche l’animatrice in un villaggio della Sardegna. Riuscii a mettere dap arte un pò di soldi che presto mi sarebbero serviti per cominciare a costruire le fondamenta del mio futuro.
Disteso sulla poltrona c’era il mio vestito marrone e bianco, nuovo e elegante e lì accanto un paio di decoltè marroni con qualche centimetro di tacco. Vidi sopra al vestito una busta Bianca e un pacchettino blu. Afferrai la busta: lasciai scorrere il dito per sollevare la linguetta. Quindi estrassi il biglietto:

“Alla nostra dottoressa,
sei il nostro orgoglio, oggi e sempre,

firmato:
Benedetta e Sveva

Ps … specialmente della mamma e del papa.

Sentii l’emozione salire, chiusi gli occhi per meglio assaporare quel momento di soddisfazione personale.
Aprii il pacchetto e racchiuso in un sottile strato di cartapesta, un braccialetto d’oro bianco con tre ciondoli a forma di cuore. Il mio e quello delle mie sorelle. Lo indossai subito. Era perfetto.
La sveglia di Giorgio cominciò a suonare: la sua mano cominciò a tastare ogni oggetto sul comodino, sperando di trovare quello giusto, accorgendomi che si stava muovendo nella direzione sbagliata, mi avvicinai e la spensi io.
“Buon giorno!” dissi, prendendo posto vicino a Benedetta; sollevai il lenzuolo e mi rannicchiai intorno a lei. La sua mano mi accarezzò il viso:
“Sei pronta, piccolina?”
“Mi sa proprio di sì!”

Discussi la tesi senza mai smettere di fissare I membri della commissione dritto negli occhi e senza increspature o interruzioni nel mio discorso: ero perfettamente a mio agio. Vidi comparire sui loro volti un crescente stupore, seguito da un’ espressione di ammirazione. Non so come sia potuto succedere: Io, seduta davanti a otto professori con I loro occhi severi, puntati su di me e nessun momento di esitazione. Quando finii di parlare mi voltai verso il pubblico e allora capii il motivo: era Benedetta, era Sveva, era Filippo, era Michela, era Irene, era Martina. Erano loro. La mia energia, il mio ossigeno, la spinta a fare sempre meglio.
Quando fu il momento della proclamazione avvertii un brivido salire lungo la schienza, mi alzai in piedi e presi posto vicino agli altri candidati, accorgendomi che lo spazio dell’aula magna era immenso.
Il presidente pronunciò il mio nome:
“Matilde Casale” seguito da una formula uguale per tutti gli studenti, poi il voto: “110 e lode!”
Lo ringraziai e gli strinsi la mano. Tutto il pubblico si alzò in piedi e sull’onda dell’applauso, tornai al mio posto, tenendo stretto tra le mie mani il papiro che mi aveva appena consegnato.
“Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!” ripetei nella mia mente. Noci, la professoressa con cui avevo scelto di fare la tesi, si avvicinò a me: mi allungò la mano, gliela strinsi:
“Congratulazioni, è riuscita a catturare l’attenzione e l’interesse di tutti! Non male come inizio!”
“Inizio?” mi domandai, ma non doveva essere la fine? Mi resi conto, allora, che la linea di demarcazione che separa la fine da un nuovo inizio è talmente sottile e talvolta impercettibile che spesso non ci si accorge di averla oltrepassata. Io me ne accorsi quando cominciai ad avvicinarmi al portone che mi avrebbe condotto fuori dall’università, fuori dal mondo che mi era appartenuto dal primo giorno delle elementari fino a quello della laurea: improvvisamente avvertii una voragine nello stomaco e la luce e il calore del sole di luglio mi investì al punto che non riuscii a tenere gli occhi aperti. Poi una mano prese la mia:
“attento mondo, è arrivata Matilde Casale!”
Riconobbi la voce di Martina:
“Sono veramente fiera di avere un’amica come te!” aggiunse.
“Ce l’ho fatta, Martina! Ora è il momento che me la veda con la vita vera e tu lo sai che qualunque cosa accada, proseguiremo insieme?”
Sentendo quelle parole si commosse:
“Da quando ti conosco non ne ho mai dubitato, ora meno che mai!”
Sul marciapiede di fronte c’era il resto della combriccola: Filippo si staccò dal gruppo e mi venne incontro con la sua eleganza di sempre tenendo nella mano destra un enorme mazzo di fiori.
“Ti amo!”
“Anche io, Filippo!”
Intervenne Irene: “Rimandate le vostre tenere effusioni a stanotte, ora si deve festeggiare. Su dottoressa, è inutile che mi guardi così!”
“Così come?”
“Sai bene cosa ci attende ora! E’ inutile che fai finta di non capire!”
Ci pensai su un attimo, poi:
“No, Irene! Assolutamente no!”
“No?? Invece sì, Matilde. Si sa che le promesse vanno mantenute!”
Nemmeno il tempo di ribattere che mi trovai seduta sul sedile posteriore della Micra rossa di Irene.
“Tu sei pazza non lo farò mai!” esclamai cercando di superare i bassi della musica trasmessa alla radio. “Sono promesse che si fanno, sapendo che tanto non verranno mantenute!”
“Ah sì? Non sapevo dell’esistenza di questo genere di promesse!” disse Filippo, guardandomi dallo specchietto retrovisore e strizzando l’occhio;
“Filippo, sei dalla mia parte o dalla sua?”
“Ovviamente dalla sua!” rispose ridendo.
“Ma si può sapere cosa dovete combinare voi due?” domandò Martina sempre più incuriosita.
“Presto lo vedrete!” tagliò corto Irene: “Dovete solo avere un pò di pazienza! Tra circa mezzora dovremmo esserci!”
Esattamente mezzora dopo oltrepassammo il cartello: Lecco. 
Irene posteggiò l’auto nelle righe blu del parcheggio più vicino al lago. Lanciò le chiavi a Filippo, mi prese per mano e cominciammo a correre: entrammo nel lido pubblico e sempre di corsa raggiungemmo la sponda del lago. Lì ci bloccammo: alzò la testa e col dito indicò una costruzione in metallo che fungeva da trampolino.
“Sei pronta?”
“Se ti dicessi di no, cambierebbe qualcosa?”
“No!”
“Allora andiamo!” mi diressi verso la scala a pioli con il cuore che mi batteva in gola, lei dietro di me. Una volta in cima guardai verso il basso: esattamente otto metri ci separavano dalla superficie nera e lucida del lago. Incrociai lo sguardo di enorme stupore di Filippo e poi quello di Martina. Feci un respiro profondo e afferrai la mano di Irene:
“Al mio tre!” disse lei. Chiusi gli occhi.
“1”
“2”
“3”
Staccai i piedi dalla piattaforma metallica, sotto di me il vuoto e dentro di me il caos per un tempo indefinito. Mi abbandonai al nulla, una sensazione mai provata prima, che mi condusse fino a toccare e sprofondare nell’acqua ghiacciata: l’impatto provocò una scossa bestiale che si diffuse in tutto il corpo. Quando riemersi gridai con tutta me stessa fino a che ebbi la forza di farlo. Guardai la mia mano destra: era ancora ben stretta a quella di Irene. Poi guardai lei e sorrisi perchè entrambe piangevamo.

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