Foto di Cristina Barbieri |
LUGLIO 2004
Il giorno della laurea arrivò
come tutti I giorni con la differenza che mi alzai prima di sentire la sveglia.
Non fu un sonno tranquillo e sereno: feci fatica ad addormentarmi e durante la
notte I miei occhi si aprirono almeno una quindicina di volte se non di più,
giusto per assicurarmi che la sveglia dovesse ancora suonare. E poi finalmente
l’alba: dormivano ancora tutti; senza fare troppo rumore sgattaiolai in
bagno e aprii I rubinetti della
doccia. Dovetti aspettare qualche secondo prima che l’acqua diventasse calda.
Colpa di uno scaldabagno troppo vecchio.
Mi spostai in soggiorno con
l’ascigamano arrotolato sulla testa, ancora calda di vapore e con le guance
rosse: Benedetta e Giorgio erano ancora nel mondo dei sogni. Da quando si erano
sposati, il nostro bilocale si era fatto più stretto, ma non ne feci un
problema. Mi rallegrava vedere gente girare per casa, un pò meno il disordine
che l’unico maschio di casa era in grado di creare.
Le loro nozze vennero
celebrate il 14 Giugno del 2003, nella chiesa dove si sposarono I nostri
genitori: io ebbi l’onore di essere la testimone della sposa, mentre Sveva
portò le fedi all’altare.La chiesa era addobbata con due mazzi enormi di rose
bianche e fiori di arancio e tante piccole copie degli stessi mazzi a fianco ad
ogni panca di legno. Infondo alla navata laterale c’era il fotografo impegnato
a montare I faretti, una volta sistemati prese posto in prima fila in attesa di
dare inizio agli infiniti scatti che avrebbero immortalato per sempre quel
momento. Benedetta arrivò a bordo del vecchio maggiolone decappottabile che
apparteneva alla sua migliore amica, l’altra testimone. L’aiutai ad uscire,
facendo attenzione allo strascico ingombrante: era bellissima. Quando Giorgio
vide la sposa, I suoi occhi brillarono di gioia e commozione, respirò
profondamente: era pronto a prometterle eterno amore.
“Dovete sopportarci ( quel
plurale si riferiva anche a Sveva)
ancora per poco!” pensai. Da quando avevo cominciato l’università, mi ero
trovata sempre qualche lavoretto da fare: babysitter, hostess, ripetizioni,
cameriera, per un paio di estati feci anche l’animatrice in un villaggio della
Sardegna. Riuscii a mettere dap arte un pò di soldi che presto mi sarebbero
serviti per cominciare a costruire le fondamenta del mio futuro.
Disteso sulla poltrona c’era
il mio vestito marrone e bianco, nuovo e elegante e lì accanto un paio di
decoltè marroni con qualche centimetro di tacco. Vidi sopra al vestito una
busta Bianca e un pacchettino blu. Afferrai la busta: lasciai scorrere il dito
per sollevare la linguetta. Quindi estrassi il biglietto:
“Alla nostra dottoressa,
sei il nostro orgoglio, oggi e
sempre,
firmato:
Benedetta e Sveva
Ps … specialmente della mamma
e del papa.
Sentii l’emozione salire,
chiusi gli occhi per meglio assaporare quel momento di soddisfazione personale.
Aprii il pacchetto e racchiuso
in un sottile strato di cartapesta, un braccialetto d’oro bianco con tre
ciondoli a forma di cuore. Il mio e quello delle mie sorelle. Lo indossai
subito. Era perfetto.
La sveglia di Giorgio cominciò
a suonare: la sua mano cominciò a tastare ogni oggetto sul comodino, sperando
di trovare quello giusto, accorgendomi che si stava muovendo nella direzione
sbagliata, mi avvicinai e la spensi io.
“Buon giorno!” dissi,
prendendo posto vicino a Benedetta; sollevai il lenzuolo e mi rannicchiai
intorno a lei. La sua mano mi accarezzò il viso:
“Sei pronta, piccolina?”
“Mi sa proprio di sì!”
Discussi la tesi senza mai
smettere di fissare I membri della commissione dritto negli occhi e senza
increspature o interruzioni nel mio discorso: ero perfettamente a mio agio.
Vidi comparire sui loro volti un crescente stupore, seguito da un’ espressione
di ammirazione. Non so come sia potuto succedere: Io, seduta davanti a otto
professori con I loro occhi severi, puntati su di me e nessun momento di
esitazione. Quando finii di parlare mi voltai verso il pubblico e allora capii
il motivo: era Benedetta, era Sveva, era Filippo, era Michela, era Irene, era Martina.
Erano loro. La mia energia, il mio ossigeno, la spinta a fare sempre meglio.
Quando fu il momento della
proclamazione avvertii un brivido salire lungo la schienza, mi alzai in piedi e
presi posto vicino agli altri candidati, accorgendomi che lo spazio dell’aula
magna era immenso.
Il presidente pronunciò il mio
nome:
“Matilde Casale” seguito da
una formula uguale per tutti gli studenti, poi il voto: “110 e lode!”
Lo ringraziai e gli strinsi la
mano. Tutto il pubblico si alzò in piedi e sull’onda dell’applauso, tornai al
mio posto, tenendo stretto tra le mie mani il papiro che mi aveva appena
consegnato.
“Ce l’ho fatta, ce l’ho
fatta!” ripetei nella mia mente. Noci, la professoressa con cui avevo scelto di
fare la tesi, si avvicinò a me: mi allungò la mano, gliela strinsi:
“Congratulazioni, è riuscita a
catturare l’attenzione e l’interesse di tutti! Non male come inizio!”
“Inizio?” mi domandai, ma non
doveva essere la fine? Mi resi conto, allora, che la linea di demarcazione che
separa la fine da un nuovo inizio è talmente sottile e talvolta impercettibile
che spesso non ci si accorge di averla oltrepassata. Io me ne accorsi quando
cominciai ad avvicinarmi al portone che mi avrebbe condotto fuori
dall’università, fuori dal mondo che mi era appartenuto dal primo giorno delle
elementari fino a quello della laurea: improvvisamente avvertii una voragine
nello stomaco e la luce e il calore del sole di luglio mi investì al punto che
non riuscii a tenere gli occhi aperti. Poi una mano prese la mia:
“attento mondo, è arrivata
Matilde Casale!”
Riconobbi la voce di Martina:
“Sono veramente fiera di avere
un’amica come te!” aggiunse.
“Ce l’ho fatta, Martina! Ora è
il momento che me la veda con la vita vera e tu lo sai che qualunque cosa
accada, proseguiremo insieme?”
Sentendo quelle parole si
commosse:
“Da quando ti conosco non ne
ho mai dubitato, ora meno che mai!”
Sul marciapiede di fronte
c’era il resto della combriccola: Filippo si staccò dal gruppo e mi venne
incontro con la sua eleganza di sempre tenendo nella mano destra un enorme
mazzo di fiori.
“Ti amo!”
“Anche io, Filippo!”
Intervenne Irene: “Rimandate
le vostre tenere effusioni a stanotte, ora si deve festeggiare. Su dottoressa,
è inutile che mi guardi così!”
“Così come?”
“Sai bene cosa ci attende ora!
E’ inutile che fai finta di non capire!”
Ci pensai su un attimo, poi:
“No, Irene! Assolutamente no!”
“No?? Invece sì, Matilde. Si
sa che le promesse vanno mantenute!”
Nemmeno il tempo di ribattere
che mi trovai seduta sul sedile posteriore della Micra rossa di Irene.
“Tu sei pazza non lo farò
mai!” esclamai cercando di superare i bassi della musica trasmessa alla radio.
“Sono promesse che si fanno, sapendo che tanto non verranno mantenute!”
“Ah sì? Non sapevo
dell’esistenza di questo genere di promesse!” disse Filippo, guardandomi dallo
specchietto retrovisore e strizzando l’occhio;
“Filippo, sei dalla mia parte
o dalla sua?”
“Ovviamente dalla sua!”
rispose ridendo.
“Ma si può sapere cosa dovete
combinare voi due?” domandò Martina sempre più incuriosita.
“Presto lo vedrete!” tagliò
corto Irene: “Dovete solo avere un pò di pazienza! Tra circa mezzora dovremmo
esserci!”
Esattamente mezzora dopo
oltrepassammo il cartello: Lecco.
Irene posteggiò l’auto nelle righe blu del
parcheggio più vicino al lago. Lanciò le chiavi a Filippo, mi prese per mano e
cominciammo a correre: entrammo nel lido pubblico e sempre di corsa
raggiungemmo la sponda del lago. Lì ci bloccammo: alzò la testa e col dito
indicò una costruzione in metallo che fungeva da trampolino.
“Sei pronta?”
“Se ti dicessi di no,
cambierebbe qualcosa?”
“No!”
“Allora andiamo!” mi diressi
verso la scala a pioli con il cuore che mi batteva in gola, lei dietro di me.
Una volta in cima guardai verso il basso: esattamente otto metri ci separavano
dalla superficie nera e lucida del lago. Incrociai lo sguardo di enorme stupore
di Filippo e poi quello di Martina. Feci un respiro profondo e afferrai la mano
di Irene:
“Al mio tre!” disse lei.
Chiusi gli occhi.
“1”
“2”
“3”
Staccai i piedi dalla
piattaforma metallica, sotto di me il vuoto e dentro di me il caos per un tempo
indefinito. Mi abbandonai al nulla, una sensazione mai provata prima, che mi
condusse fino a toccare e sprofondare nell’acqua ghiacciata: l’impatto provocò
una scossa bestiale che si diffuse in tutto il corpo. Quando riemersi gridai
con tutta me stessa fino a che ebbi la forza di farlo. Guardai la mia mano
destra: era ancora ben stretta a quella di Irene. Poi guardai lei e sorrisi
perchè entrambe piangevamo.
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