CAPITOLO 23 - Lontano da chi?

Fotografia di Cristina Barbieri
Spinoza disse: "Non c'è speranza senza paura nè paura senza speranza"




Mi sono sempre domandata se esiste una teoria sugli intervalli di tempo che separano gli eventi positivi da quelli negativi della vita. Si tratta di semplice casualità o episodi che si ripetono in modo costante e periodico, seguendo l’ordine scandito da una formula matematica che solo I geni conoscono? O semplicemente, qual è il criterio che sta alla base del tu sì, tu no? Dopo anni e anni in cui mi sono posta questa domanda senza mai trovare risposte sufficientemente convincenti, giunsi alla conclusione che le cose accadono a coloro che sono in grado di affrontarle.

Numero sconosciuto: “Pronto?”
Era la segreteria scolastica che mi diceva di correre a scuola, perchè Sveva si era fatta male a una gamba, mentre stava giocando a palla con I suoi compagni:
“E’ successo all’improvviso: il momento prima stava correndo e il momento dopo l’ho vista a terra in lacrime” spiegò la maestra.


Chiamai Benedetta, le raccontai cos’era successo: di nuovo in ospedale. Questa volta al Gaetano Pini. Sveva continuò a piangere per tutto il tragitto, ogni suo singhiozzo spezzava il mio respiro. Dato che mia sorella era fuori città e prima di sera non sarebbe arrivata a Milano, Martina venne con me.
Entrai di corsa al pronto soccorso: mi guardai intorno, sperando di individuare qualcuno che mi potesse aiutare.
“Sta male! Vi prego, fate qualcosa!”
Vidi un’infermiera venirmi in contro. Martina spiegò cos’era successo. Apparentemente nulla. Gli occhi di Sveva, sempre più stanchi e gonfi, non avevano mai smesso di far uscire lacrime a fiotti. Arrivò un medico con in mano una siringa: con mossa repentina le iniettò un calmante. Fece immediatamente effetto.
“Direi di cominciare a fare una lastra alla gamba per vedere se è fratturata”
Sveva venne adagiata su una barella e portata via. Io mi voltai verso Martina e scoppiai a piangere.
“Vedrai che non sarà nulla!” mi rassicurò abbracciandomi.
“Ho come il presentimento che la cosa sia molto più grave di come sembri!”
Asciugai le lacrime con un fazzoletto di carta stropicciato, tirai su col naso e mi concentrai sul respiro. Non potevo aver dimenticato come si faceva, non sarebbe stato umanamente possibile, trattandosi di qualcosa che accade e basta. Rimasi in apnea per qualche secondo, poi buttai fuori tutta l’aria. Ripetei quell’azione per un paio di volte. Poi spalancai la bocca e inspirai fino infondo. Avvertii I polmoni gonfiarsi al massimo e poco dopo svuotarsi completamente.
Individuai due posti liberi vicino al banco dell’accettazione:
“Sediamoci, ci sarà da aspettare parecchio!”
Restammo sedute su quelle scomode seggioline di plastica consumata per ore. Poi, finalmente, lo stesso medico che aveva iniettato il calmante a Sveva, comparve davanti a noi: iniziò a parlare, credo troppo velocemente. La mia testa non era abbastanza lucida per catturare le sue parole e assimilarle. Nessuna eccetto una: nel momento in cui la pronunciò, dentro di me si scatenò una reazione di completo rigetto.
“Non riesco a capire perchè ha fatto una biopsia per una frattura alla gamba, dottore!”
“L’infermiera ci ha spiegato come l’ha riportata: c’era qualcosa di anormale!”
“Vale a dire?”
“Può essere stata causata da un tumore!”
“Un tumore?”
“Le analisi sono in corso, ma la biopsia ha rivelato la presenza di cellule tumorali. Siamo ancora nella fase diagnostica, abbiamo, quindi bisogno di fare ulteriori esami e accertamenti”
“Perciò non lo sapete! Non ne siete sicuri!”
“Tutto indica la presenza di un sarcoma, quindi a breve vi faremo parlare con un oncologo!”
“Ma dottore, Sveva ha solo sette anni…”
Ripetei quella frase fino all’esasperazione. Cominciai a camminare avanti e indietro per la sala d’attesa. Non riuscivo a stare ferma, mi sembrava tutto così inspiegabilmente assurdo. Perchè lei? Perchè una bambina? Odiavo quelle domande: non avevano risposta.
Due sagome distorte dai contorni indefiniti si fermarono di fronte a me: misi a fuoco, una era Benedetta, l’altra doveva essere l’oncologo. Non mi mossi dalla posizione in cui mi trovavo. Sentii la mano gelata di mia sorella afferrare la mia, non riuscivo a guardarla. Con fatica posai gli occhi su di lei:
“Cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo?”
Mi abbracciò facendomi quasi mancare il fiato:
“Niente, Matilde, niente!”
Le mie guance erano zuppe di lacrime. Ma non credo fossero solo le mie.
“E adesso?” domandai, guardando con occhi tristi e angosciati il giovane medico.
“Gli specialisti considerano ogni alternativa prima di prendere una decisione, ma con il tipo di tumore che ha, l’amputazione è la soluzione più efficace!”
Chiusi gli occhi  e rimasi in silenzio per assicurarmi che il mio cuore battesse ancora. Ero convinta che quella parola avesse assorbito tutto l’ossigeno che mi teneva in vita.
“Se gliela amputano è sicuro che non morirà?”
“No, ma avrà sicuramente più speranze”
Alla fine scivolai sulla  sedia di fronte a Benedetta, esausta.

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