Fotografia di Cristina Barbieri |
Mi sono sempre domandata se
esiste una teoria sugli intervalli di tempo che separano gli eventi positivi da
quelli negativi della vita. Si tratta di semplice casualità o episodi che si
ripetono in modo costante e periodico, seguendo l’ordine scandito da una
formula matematica che solo I geni conoscono? O semplicemente, qual è il
criterio che sta alla base del tu sì, tu no? Dopo anni e anni in cui mi sono
posta questa domanda senza mai trovare risposte sufficientemente convincenti,
giunsi alla conclusione che le cose accadono a coloro che sono in grado di
affrontarle.
Numero sconosciuto: “Pronto?”
Era la segreteria scolastica
che mi diceva di correre a scuola, perchè Sveva si era fatta male a una gamba,
mentre stava giocando a palla con I suoi compagni:
“E’ successo all’improvviso:
il momento prima stava correndo e il momento dopo l’ho vista a terra in
lacrime” spiegò la maestra.
Chiamai Benedetta, le
raccontai cos’era successo: di nuovo in ospedale. Questa volta al Gaetano Pini.
Sveva continuò a piangere per tutto il tragitto, ogni suo singhiozzo spezzava
il mio respiro. Dato che mia sorella era fuori città e prima di sera non
sarebbe arrivata a Milano, Martina venne con me.
Entrai di corsa al pronto
soccorso: mi guardai intorno, sperando di individuare qualcuno che mi potesse
aiutare.
“Sta male! Vi prego, fate
qualcosa!”
Vidi un’infermiera venirmi in
contro. Martina spiegò cos’era successo. Apparentemente nulla. Gli occhi di
Sveva, sempre più stanchi e gonfi, non avevano mai smesso di far uscire lacrime
a fiotti. Arrivò un medico con in mano una siringa: con mossa repentina le
iniettò un calmante. Fece immediatamente effetto.
“Direi di cominciare a fare
una lastra alla gamba per vedere se è fratturata”
Sveva venne adagiata su una
barella e portata via. Io mi voltai verso Martina e scoppiai a piangere.
“Vedrai che non sarà nulla!”
mi rassicurò abbracciandomi.
“Ho come il presentimento che
la cosa sia molto più grave di come sembri!”
Asciugai le lacrime con un
fazzoletto di carta stropicciato, tirai su col naso e mi concentrai sul
respiro. Non potevo aver dimenticato come si faceva, non sarebbe stato
umanamente possibile, trattandosi di qualcosa che accade e basta. Rimasi in
apnea per qualche secondo, poi buttai fuori tutta l’aria. Ripetei quell’azione
per un paio di volte. Poi spalancai la bocca e inspirai fino infondo. Avvertii
I polmoni gonfiarsi al massimo e poco dopo svuotarsi completamente.
Individuai due posti liberi
vicino al banco dell’accettazione:
“Sediamoci, ci sarà da
aspettare parecchio!”
Restammo sedute su quelle
scomode seggioline di plastica consumata per ore. Poi, finalmente, lo stesso
medico che aveva iniettato il calmante a Sveva, comparve davanti a noi: iniziò
a parlare, credo troppo velocemente. La mia testa non era abbastanza lucida per
catturare le sue parole e assimilarle. Nessuna eccetto una: nel momento in cui
la pronunciò, dentro di me si scatenò una reazione di completo rigetto.
“Non riesco a capire perchè ha
fatto una biopsia per una frattura alla gamba, dottore!”
“L’infermiera ci ha spiegato
come l’ha riportata: c’era qualcosa di anormale!”
“Vale a dire?”
“Può essere stata causata da
un tumore!”
“Un tumore?”
“Le analisi sono in corso, ma
la biopsia ha rivelato la presenza di cellule tumorali. Siamo ancora nella fase
diagnostica, abbiamo, quindi bisogno di fare ulteriori esami e accertamenti”
“Perciò non lo sapete! Non ne
siete sicuri!”
“Tutto indica la presenza di
un sarcoma, quindi a breve vi faremo parlare con un oncologo!”
“Ma dottore, Sveva ha solo
sette anni…”
Ripetei quella frase fino
all’esasperazione. Cominciai a camminare avanti e indietro per la sala
d’attesa. Non riuscivo a stare ferma, mi sembrava tutto così inspiegabilmente
assurdo. Perchè lei? Perchè una bambina? Odiavo quelle domande: non avevano
risposta.
Due sagome distorte dai
contorni indefiniti si fermarono di fronte a me: misi a fuoco, una era
Benedetta, l’altra doveva essere l’oncologo. Non mi mossi dalla posizione in
cui mi trovavo. Sentii la mano gelata di mia sorella afferrare la mia, non
riuscivo a guardarla. Con fatica posai gli occhi su di lei:
“Cosa abbiamo fatto di male
per meritarci tutto questo?”
Mi abbracciò facendomi quasi
mancare il fiato:
“Niente, Matilde, niente!”
Le mie guance erano zuppe di
lacrime. Ma non credo fossero solo le mie.
“E adesso?” domandai,
guardando con occhi tristi e angosciati il giovane medico.
“Gli specialisti considerano
ogni alternativa prima di prendere una decisione, ma con il tipo di tumore che
ha, l’amputazione è la soluzione più efficace!”
Chiusi gli occhi e rimasi in silenzio per assicurarmi
che il mio cuore battesse ancora. Ero convinta che quella parola avesse
assorbito tutto l’ossigeno che mi teneva in vita.
“Se gliela amputano è sicuro
che non morirà?”
“No, ma avrà sicuramente più
speranze”
Alla fine scivolai sulla sedia di fronte a Benedetta, esausta.
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