Foto di Beatrice Barbieri |
Susanna Tamaro scrisse: "Quando ti si apriranno tante strade e non saprai quale scegliere, non
imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la profondità
fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuto al mondo,
non farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora, resta in
silenzio ed ascolta il tuo cuore. E quando ti parla, alzati e vai dove
lui ti porta"
SETTEMBRE 2000.
Al tempo dei fatti dell’asilo
di Sveva, io e Benedetta ci procurammo dei libri per saperne qualcosa di più.
Giravo spesso con qualche saggio in borsa che estraevo quando non avevo da
leggere libri universitari. Non era l’uomo nero a spaventarla o creature
simili, ma il timore che da un momento all’altro potessimo abbandonarla.
Talvolta compariva terrorizzata e tremante nel cuore nella notte e cominciava
a strattonarmi perchè mi
svegliassi. Allora mi alzavo con gli occhi ancora chiusi e la riaccompagnavo
nel suo letto: accendevo la luce con le api, afferravo una delle tante fiabe e
iniziavo a leggere, a fatica. Sveva, lì distesa, mi teneva stretta la mano.
Appena il tono della mia voce di abbassava, lei diceva:
“Ancoa” la “r” per lei era
spesso un optional. Quando le domandavo:
“Ma che fine ha fatto la “r”?”
Lei rispondeva: “Bo, io non
l’ho vista!”
Ripetevo la fiaba due, tre
volte: poi quando mi alzavo per tornare nel mio letto, convinta che si fosse
tranquillizzata, mi giungeva la sua vocina:
“Non andae via!”
Allora tornavo indietro,
l’accarezzavo con dolcezza, le facevo I grattini sul braccio e se vedevo che la
situazione non migliorava, benchè ne fossi contraria, la facevo dormire con me.
E chissà come mai, appena
toccava il mio letto e adagiava la testa sul mio cuscino, scivolava
immediatamente in un sonno profondo. Io anche.
L’8 Settembre fu il primo
giorno di asilo di Sveva. Non so se fossi più agitata io o lei: la cambiai una
decina di volte, non sapevo se era meglio una tenuta sportiva o, visto che si
trattava pur sempre di una data memorabile, più elegante. Perfortuna intervenne
Benedetta: in pochi secondi la cambiò per l'undicesima volta. Lacoste rosa e
saloppette di jeans. S'infilò il soprabito e si diresse alla porta:
"Mandami un messaggio
appena è entrata nella sua classe!"
Finii di prepararmi: afferrai
la cartella di cuoio, sistemai Sveva nel passeggino e finalmente eravamo pronte
per cominciare una nuova avventura.
Tirava una leggera brezza,
c’erano un pò di nuvole che si muovevano veloci e le strade cominciavano ad
essere di nuovo piene: mi piaceva camminare in mezzo a tutta quella gente, mi
piaceva sentire tutti i piccoli rumori.
Eravamo in anticipo, perciò mi
fermai in un bar a un centinaio di metri dall'asilo. Il mio vecchio asilo: un
tuffo nel passato in un mare di ricordi. Le maestre, i giocattoli, i lavoretti,
le recite, gli appendini con il proprio nome, il giardino dove si giocava a
Mago Libero, 1,2,3 Stella e Nascondino, i lavandini troppo alti e le merende
che odiavo perchè sempre e solo a base di frutta.
Ordinai una spremuta d'arancia
e una brioche alla marmellata: l’odore di burro mischiato a quello di
pastafrolla sarebbe restato sulle mani per tutta la giornata. Era arrivato il
momento di andare: mi avvicinai alla cancellata in ferro battuto che circondava
l'intero edificio. Era pieno di mamme. Mi feci largo e raggiunsi l'ingresso:
lasciai il passeggino e presi per mano Sveva che cominciò a muoversi verso il
salone. Guardai le nostre mani: erano strette l'una all'altra, sembrava non ne
volessero sapere di separarsi. Le sue dita un pò cicciotte solleticavano le
mie. Tornai a concentrarmi sulla classe verde che dovevo trovare: mi guardai
attorno. C'era la rossa, la gialla, la turchese e l'arancione. Un pò più in là
c'erano la classe azzurra e rosa. Della verde nessuna traccia, mi domandai se
magari si erano sbagliati.
"Ciao, posso
aiutarti?" disse una voce giovanile alle mie spalle; mi voltai e mi trovai
di fronte ad una ragazza che poteva avere la mia età, carina, molto abbronzata,
non troppo alta, occhi grandi e di un azzurro intenso. Dicono che gli occhi
siano lo specchio dell'anima.
"Ciao! Sì, mi sono persa,
o meglio non è che mi sono proprio persa, è che non vedo la classe verde, un
tempo era vicino a quella azzurra."
"Si, ma parliamo di
almeno quindici anni fa...!" disse, sorridendo; "Ex frequentatrice
della classe verde?"
"Eh già! Comunque
piacere, Matilde!"
"Piacere mio Martina! Sei
sua sorella, vero?"
"Wow, sei la prima
persona che non mi dice: ma che mamma giovane!"
"E' il terzo anno che
faccio la maestra in questo asilo e credimi, ormai riconosco l'ansia materna da
tutte le altre! E comunque insegno proprio nella classe verde!"
"Ma che fortuna! Hai
visto, Sveva - la presi in braccio -
lei è la tua nuova maestra,
ti insegnerà un sacco di cose!"
Sveva guardò Martina e le sorrise. Era la
prima volta che la vedevo sorridere con una persona estranea e la cosa mi
rassicurò molto.
L'accompagnai fino alla sua
classe: era giunto il momento del distacco, non pensavo mi avrebbe fatto un
così strano effetto, in fondo si trattava di una cosa normale che prima o poi
sarebbe dovuta succedere e or ache il fatidico momento era arrivato, avrei
voluto rinviarlo a data ancora da stabilire. Non potendolo fare, mi limitai a
riempirla di baci e a farle un milione di raccomandazioni, la maggior parte delle quali sembravano
rivolte più a me stessa che a lei, salutai Martina:
"Ci vediamo alle 2.30,
comunque io sono in università e l'altra mia sorella al lavoro, siamo tutte e
due reperibili, quindi per qualsiasi cosa fai chiamare dalla segreteria,
ok?!"
"Certo! Ma non ti
preoccupare, vedrai che andrà tutto benissimo!"mi rassicurò.
"Oddio sono peggio di una
madre apprensiva!"
Sorrise: "Sei una brava
sorella maggiore!"
Presi coraggio e mi
allontanai, guardando sempre nella direzione di Sveva, quel musino tenero che
non mi staccava gli occhi di dosso. Continuavo a pensare: "Girati, girati,
vai dai tuoi compagni!" e magicamente accadde: si voltò per andare non dai
suoi compagni, ma dalla sua maestra.
Iniziai a camminare per le
strade del centro, non m'importava arrivare presto in università, per l'esame
di metà Settembre mi sentivo pronta. Scrissi a Benedetta, come le avevo
promesso. Passai in cartoleria per fare scorta di evidenziatori gialli, che
avevo la capacità di consumare in brevissimo tempo e poi varcai la soglia
imponente dell'Università Statale di Milano. Camminai per il chiostro e raggiunsi il dipartimento di Lettere.
Mi accesi una sigaretta prima di entrare in biblioteca: appoggiai la schiena
alla colonna, quando vidi una sagoma molto familiare riflessa sulla porta a
vetri:
"Non potevo resistere
l'intera mattinata senza vederti!"
"devo avere dei poteri
veramente straordinari per essere riuscita a farti diventare mattiniero!"
Filippo si avvicinò e adagiò
le sue mani sui miei fianchi "Buon giorno amore!"
poi mi baciò, lasciando sulle
mie labbra il sapore amaro del caffè.
Da giugno del 1999 non ebbi
più notizie di Paolo, lui non rispose mai alla mia lettera, rispettando la mia
richiesta e io non lo cercai. Trascorsi parte di quell'estate in Sardegna con
Filippo, dei suoi amici e Irene ed è successo quel che è successo: mi sono di
nuovo innamorata di lui, un amore diverso, più razionale, più maturo e meno da
favola.
Alle 14.30, puntuale come un
orologio svizzero mi presentai davanti alla classe verde: mi trovai in mezzo a
a un vortice di madri che riabbracciavano I loro piccoli, soffocandoli di baci.
Ringraziando il cielo, non ricordo che mia madre abbia fatto qualcosa di simile
con me, o se l'ha fatto devo averlo volutamente rimosso.
Cercai lo sguardo di Martina e
mi sorrise. "E' normale!" Vidi sbucare da dietro di lei, il mio
amore: aprii le braccia e mi corse in contro, non so come potè succedere, ma mi
sfuggì una lacrima che eliminai subito con il palmo della mano. "Sono come
loro!" pensai, guardando le
mamme che mi avevano accerchiato.
"Ascolta, io sono in
macchina, se hai finito ti dò uno strappo!"
"Grazie, accetto
volentieri! Mi dai solo dieci minuti: devo aspettare che la classe si
svuoti!"
"Certo... devi avere
veramente tanta pazienza con tutti questi bambini?!"
"Sì, certe volte è il
delirio più totale, ma li adoro sempre, che ridano o piangano."
"E hai detto che è il
terzo anno che fai la maestra d'asilo?"
"Esatto, il primo anno
lavoravo all'asilo solo il pomeriggio, mentre alla mattina curavo una bambina,
poi a partire da Settembre dell'anno scorso mi hanno assunta a tempo
pieno!"
"Complimenti, io non
penso che ce la farei, secondo me ci vuole una vocazione e io sono certa di non
averla! Ho solo questo mostrino da tenere sotto controllo gran parte della
giornata e mi sembra già un lavoro a tempo pieno!"
"E tu, invece,
studi?"
"Sì, sono al secondo anno
di lettere moderne. Mi piace molto, c'è voluto un pò di tempo perchè piacesse
anche alla mia sorella maggiore, ma alla fine sono riuscita a convincerla. o
quasi!"
"Bene, sono andati via
tutti! Prendo la borsa e arrivo!"
Sentii vibrare il cellulare:
Un messaggio ricevuto:
Benedetta:
"Stasera cena
fuori con Giorgio, la tua ex prof preferita e il suo fidanzato, ti va? Dillo
anche a Filippo o a chi vuoi. Bacibaci e uno alla mia principessa!"
Avevo voglia di vedere
Michela, la tanto odiata e poi amata prof Ferrari: ero stata sua ospite a Roma
qualche giorno a Luglio e mi trovai veramente bene. Mi presentò sua sorella e
le sue due figlie, Caterina e Giulia, persone squisite e molto ospitali. Mi
portarono in giro per la città: le strade erano piene di turisti. Sentivo
parlare francese, inglese, spagnolo, tedesco, eppure erano tutti accomunati dal
piacevole stupore verso le meraviglie che si presentavano ai loro occhi. Io
compresa.
Il rapporto con Michela negli
ultimi due anni si era rafforzato, era diventato ancora più bello: sapevo che
mi voleva bene, sapevo che potevo contare su di lei, sapevo che con me sarebbe
stata sempre sincera e io con lei. Nonostante non fosse più la mia prof, da lei
non avevo smesso di imparare: sapeva un sacco di cose e quando parlava di
letteratura, dei classici, di quel mondo di pazzi intellettuali io pendevo
dalle sue labbra. Mi catturava come poche persone sono in grado di fare e sarei
rimasta lì a sentirla parlare per ore.
Risposi subito a Benedetta:
"Certo, ma Filippo stasera non c'è. A più tardi."
Sistemai Sveva nel seggiolino,
allacciai la cintura di sicurezza fatta apposta su misura per lei e presi posto
alla guida:
"Da che parte
andiamo?" domandai a Martina;
"Ti conviene svoltare
alla prima a sinistra...." mi avvertì appena in tempo, la curva fu un pò
brusca e le gomme lasciarono un segno sull'asfalto nero. Mi scusai:
"Di solito la mia guida è
meno sportiva!"
In dieci minuti arrivammo a
casa sua: conoscevo bene quella via, distava solo qualche metro dalla mia,
quella che ormai non mi apparteneva più da tanto tempo.
"Ecco, il portone è
questo!" spiegò, indicandolo. Frenai e inserii le quattro frecce: si voltò
verso Sveva e le diede una carezza.
"Ciao Matilde, sei stata
davvero gentile, mi ha fatto piacere conoscerti!"
Non fece in tempo a scendere
dalla Polo, quando una moto rossa e nera che viaggiava a una velocità troppo
elevata, la prese in pieno: il botto fu pazzesco, il suo corpo cadde a una
decina di metri più in là di dove l'avevo
lasciata. Uscii dall'auto e inziai a correre verso di lei, senza nemmeno
fare attenzione alle macchine che sfrecciavano nella corsia opposta. Mi gettai
sul suo corpo inerme, cominciai ad urlare perchè qualcuno mi aiutasse e
chiamasse un'ambulanza. Avvicinai il mio orecchio al suo cuore: batteva ancora.
"Ti prego, apri gli
occhi!" Le spostai i capelli che le coprivano il viso, sporco di asfalto e
rigato dal sangue che continuava ad uscire dalla fronte.
"Chiamate
un'ambulanza!" ripetei gridando diperatamente; la gente cominciò ad
accalcarsi attorno a noi, mi sembrava di soffocare. Sudavo freddo, con la mano
sporca del suo sangue tamponai la mia fronte. Sentii in lontananza la sirena
dell'ambulanza, poi si fece sempre più vicina, fino a che la vidi fermarsi a
pochi metri di distanza. In pochi secondi comparvero due paramedici con la
divisa arancione che portavano una lettiga e la valigetta del pronto soccorso.
"Signorina cos'è
successo?"
"Io non lo so, ho sentito
un botto tremendo, poi ho visto una moto sfrecciare via e la mia amica a terra.
Il cuore batte ancora. L'ho sentito. "
"La ringrazio, ora però
si deve allontanare, il mio collega l'accompagnerà a sedersi perchè è in un
evidente stato di shock!"
"No, non posso lasciarla.
Devo sapere che starà bene!"
"Ha riportato gravi
lesioni alla gamba e al braccio e bisogna verificare che non ci siano emorragie
interne: la portiamo al pronto
soccorso del San Paolo!" spiegò l'uomo sistemandola sulla lettiga e
facendo attenzione di non muoverla troppo. Volevo rivedere i suoi occhi azzurro
cielo, volevo che li riaprisse: "Mio dio, resisti, non mollare ora, non
puoi farlo: ho bisogno di un lieto fine!" le afferrai la mano e gliela
strinsi forte; sentii le sue dita muoversi e stringere le mie.
La guardai e i suoi occhi si
aprirono: "Io non mollo!" mi disse con un filo sottile di voce, quasi
impercettibile. Scoppiai in un pianto di commozione e ricominciai a respirare
in modo regolare:
"Vi seguo in macchina!"
"Va bene, ma non esageri
nella velocità!" si raccomandò l'uomo. Corsi verso la Polo, avviai il
motore e seguii l'ambulanza che a sirena spianata si diresse verso il San
Paolo. Prima di entrare chiamai Benedetta:
"Sono al San Paolo,
appena puoi viene a prendere Sveva che è qui con me!"
"Matilde cos'è successo?
State bene, vero?"
"Noi stiamo benissimo.
Poi ti spiego, ora devo entrare. Siamo al pronto soccorso!"
"Arrivo il prima
possibile, non spegnere il cellulare!"
Nei momenti di maggior
pericolo ripensavo a ciò che mi disse Michela il giorno del mio esame orale:
"Ricordati che gli altri hanno più paura di te!"
Quelle parole cominciarono a
occupare la mia testa in modo ossessivo e quasi me ne convinsi: conoscevo
Martina da nemmeno un giorno, eppure ebbi la sensazione di conoscerla da
sempre. Mi ero trovata bene con lei, non c'era stato imbarazzo o disagio, mi
aveva dato subito l'idea di essere una ragazza in gamba, ora, però, doveva
dimostrarmi di essere altrettanto forte.
Vidi i medici, con il loro inconfondibile
camice bianco, intervenire: il suo corpo immobile e sporco di sangue, venne
adagiato sulla barella. Entrò in sala operatoria. Pensai ai suoi genitori, alla
sua famiglia. Avrei voluto avvertirli, ma non sapevo come. Nessuno mi aveva
dato le sue cose. Consapevole di non poter fare nulla, se non aspettare, mi
lasciai cadere sulle seggiole di plastica, ormai consumata, della sala
d'aspetto e in braccio a me Sveva. Dalle grandi finestre vidi il cielo farsi
buio. Persi la cognizione del tempo: il mio corpo si era completamente staccato
dalla testa. Finalmente comparve Benedetta, che mi corse incontro, gettandomi
le braccia al collo. Mi accarezzò il viso, mi sistemò i capelli, con un
fazzoletto bagnato cercò di levarmi il sangue di dosso, che non mi apparteneva.
"Cos'è successo?"
Le raccontai quello che mi
ricordavo: ero ancora sotto shock e lo capii perchè il mio sguardo era perso
nel vuoto e le palpebre si aprivano e chiudevano con fatica, come se dovessero
sollevare enormi macigni.
Con la coda dell'occhio vidi
la porta della sala operatoria aprirsi e uscire un medico, che ancora indossava
la mascherina: mi alzai di scatto.
"Dottore, dottore, allora
come sta, mi dica che è fuori pericolo!"
"La sua amica sta bene,
ha chiesto di lei, però preferiamo tenerla sotto osservazione almeno questa
notte, per via delle numerose contusioni, non gravi, alla testa. Ha subito un intervento alla spalla e
le abbiamo dovuto ingessare la gamba destra. Tra pochi minuti le infermiere la
porteranno nella stanza numero 4 e lì potrà vederla. E' stata veramente
fortunata: un incidente di questo tipo avrebbe potuto causarle danni
irreversibili a livello cerebrale."
Mostrai un sorriso di gratitudine.
Quelle parole medicarono il mio stato d'animo. Mi sentii più sollevata.
"Benedetta io resto in
ospedale con lei finchè non arriva qualcuno della sua famiglia, voi
andate!"
"Sei sicura? Guarda che
per me non è un problema restare, la cena la possiamo rinviare."
"Tranquilla, ci vediamo a
casa!"
Le salutai e mi diressi verso
la stanza numero quattro: mentre camminavo sentivo l'eco di lamenti strazianti,
seguirmi per la corsia. Istintivamente appoggiai le mie mani sulle orecchie.
Odiavo gli ospedali: era quell'odore opprimente di disinfettante, erano quelle
fredde barelle d'acciaio, su cui le persone si contorcevano dal dolore, erano
quelle squallide luci al neon, molte delle quali funzionavano a intermittenza.
Finalmente raggiunsi la stanza numero 4: aprii la porta, stando attenta a non
fare troppo rumore. Nella camera c'erano solo due letti, uno dei quali occupato
da Martina. Lei era lì, distesa, piena di tubicini e con parte del viso coperto
da lividi bluastri. Mi sedetti accanto a lei. I suoi occhi si aprirono e
facendo un pò fatica inclinò la testa verso di me.
"Ehi! Sei
rimasta..."
"Certo! Avevi forse
qualche dubbio?"
"Che fortuna averti
incontrato!"
I miei occhi si riempirono di
lacrime: "Ascolta, se mi dici il
numero di casa, avviso la tua famiglia!"
"Che ore sono?"
"Le otto passate!"
"Credo che mia madre sia
ancora al lavoro, però mio fratello dovrebbe esserci!"
Parlai con Alberto, il
fratello di Martina. Gli spiegai cos'era successo, rassicurandolo che la
sorella era fuori pericolo e che tutto si era risolto nel migliore dei modi, a
parte qualche livido e la gamba ingessata. Nemmeno venti minuti dopo comparvero
sulla soglia della stanza una donna molto giovane e un ragazzo, i cui
lineamenti del viso erano molto simili a quelli di Martina: la donna si portò
una mano alla bocca per cercare di soffocare i singhiozzi, lui si mosse verso
di noi.
"Sto bene!" disse
Martina.
"Ci hai fatto prendere un bello spavento, sai?"
"Mi dispiace..."
"L'importante è che ora
tu stia bene!" spiegò Alberto, accarezzandole il viso.
"Lei è Matilde, la mia
nuova amica... non mi ha mai lasciato da sola!" disse, guardandomi. Mi
presentai, poi lasciai la stanza. Mi sembrò la cosa giusta da fare visto che
non era più sola.
Mi sedetti di nuovo in sala
d'attesa: ero immobile con lo sguardo fisso sul muro davanti a me. Un quadro
con due barche a vela e il mare mosso, un numero verde per richiedere informazioni relative a casa di cura
per anziani e qualche adesivo mal incollato. Distolsi gli occhi e in quel
momento prese posto vicino a me Alberto.
"Grazie per quello che
hai fatto! Sono senza parole...infondo vi conoscete appena eppure ti sei
comportata come se foste amiche da sempre!"
"Sono sicura che lei
avrebbe fatto la stessa cosa con me. Talvolta accade di essere incredibilmente
fortunati perchè entrano nella tua vita persone con le quali si instaura subito
un affetto e un feeling speciali e così è successo a me!"
"Sei sicura di non essere
ancora sotto shock?" mi domandò sorridendo;
"Bravo, prendi in giro
una povera ragazza indifesa!" gli feci l'occhiolino, poi il mio sguardo si
posò di nuovo sul quadro di fronte a me e lui tornò dalla sorella.
Avevo appena vissuto uno di
quei momenti che ti fa trattenere il respiro, mentre tutto intorno a te
comincia a muoversi sempre più veloce. Un fermo immagine in cui lacrime,
ricordi, sensi di colpa riemergono rompendo la diga di carta che li conteneva.
Credi di perdere il controllo, invece la mente non si annebbia nemmeno per un
secondo. Credi di non farcela, invece trovi la forza di soccorrere l'amica e
aspettare ore e ore prima che il medico venga a spiegarti la situazione. E quando
quest'incredibile scarica di adrenalina si esaurisce, si esaurisce anche la tua
forza e il tuo corpo si abbandona all'apatia più totale. E' così che mi
addormentai sulle scomodissime sedie di plastica del pronto soccorso, sentendo
scivolare via dalla mia pelle il pensiero: è tutto finito.
Fu un inizio un pò movimentato
per un’amicizia che il tempo avrebbe reso indistruttibile. Quell’esperienza ci
unì moltissimo: era come se ci avessero messe subito alla prova: e l'esito era
stato più che positivo. Ci saremmo state l'una per l'altra, qualunque cosa
sarebbe accaduta. Imparai a conoscerla presto: era una ragazza che conosceva la
vita e sapeva viverla, aveva una grande forza di volontà e la sua
determinazione che talvolta sfociava in testardaggine, le aveva permesso di
acquisire il potere di ammaliare chi la circondava. Appena uscì dall'ospedale,
la prima cosa che mi domandò fu cos'era successo ai miei genitori: fu la prima
persona ad essere stata capace di farmi quella domanda in modo diretto, senza
timore di aprire qualche ferita. Come se si potessero veramente marginare.
Senza la paura di creare qualche possibile situazione imbarazzante. Mi confidai
con lei e lei con me: entrambe avevamo alle spalle un passato non facile,
esperienze dolorose diverse, ma
con un denominatore comune: ci avevano fatto crescere più in fretta rispetto
agli altri nostri coetanei.
Mi presentò i suoi amici,
quasi tutti più grandi di me e cominciammo ad uscire sempre più spesso insieme.
La parola d'ordine delle nostre serate diventò: Coca e Malibù. Avevamo
l'appuntamento fisso al cinema il mercoledì sera: sconto universitari, il film
lo si sceglieva una volta a testa. Mi fece scoprire la cucina giapponese e me
ne innamorai: optammo quindi, per cena a base di sushi e sashimi una volta al
mese, ci sembrò un intervallo di tempo giusto onde evitare spiacevoli
indigestioni di pesce crudo.
E poi ridevamo. Ridevamo un
sacco. Addirittura crampi allo stomaco e lacrime agli occhi. Era la cosa che
più mi piaceva della nostra amicizia, semplicemente mi faceva stare bene.
”Dai, dove stiamo andando?”
chiese di nuovo Martina, guardando fuori dal finestrino della Polo per cercare
di capire se quei palazzi, quei negozi e quelle vie le fossero familiari.
“Tu non ti preoccupare!”
Imboccai il vialone principale,
svoltai la prima a sinistra e parcheggiai dopo un centinaio di metri, di fronte
a una serie di case tutte uguali e senza balconi.
“Eccoci!” dissi. Spensi il
motore, mi slacciai la cintura e scesi dalla macchina. Martina rimase
immobilizzata al sedile.
“Allora, cosa aspetti? Scendi
o no?”
“Tu vuoi che guidi? Sei
seriamente convinta che lo faccia?”
“Certo!”
Scosse la testa: “Non penso
proprio!”
Mi guardai intorno: la strada
era deserta.
“Qual è il problema? Non passa
mai nessuno da queste parti!”
Mi avvicinai a lei. Era
rigida, con la mano aggrappata alla cintura, poi, con gesto impercettibile la
slacciò, quasi persuasa dalle mie parole.
“E va bene…”
ci cambiammo di posto.
“Ti avverto che a malapena so
come si avvia il motore, anzi, ora che ci penso, non ne sono nemmeno tanto
sicura.”
“Mai guidato? Nemmeno una
volta?”
“Praticamente mai, a parte una
volta con mio fratello. Esperienza traumatizzante!”
“Wow!”
Mi sporsi verso di lei e
indicai i tre pedali:
“Partendo da sinistra:
frizione, freno, acceleratore. Usi il piede sinistro esclusivamente per la
frizione e il piede destro per gli altri due!”
“Per quanto riguarda le marce:
sinistra avanti, per la prima, sinistra in basso per la seconda, solo avanti
per la terza e direi che per il momento può bastare.”
Martina ascoltava attenta la
mia spiegazione: “Quando cambi, schiacci la frizione e poi lasci lentamente,
dando un pò di acceleratore. Ci sei?”
Si concentrò, era nervosa,
cercai di rassicurarla: “Nella peggior delle ipotesi
si spegne e facciamo un leggero balzo in avanti!”
Guardò lo spazio che ci
separava dal marciapiede, sistemò lo specchietto retrovisore, infine girò la
chiave.
Lasciò lentamente la frizione.
Troppo lentamente e la macchina si spense. Mi sfuggì un sorriso:
“Dai, va bene, è normale che
succeda. Non si nasce mica imparati!”
Martina mi guardò sconcertata.
Poi ritentò. Questa volta la macchina partì. Frizione e seconda. Continuammo
così per una ventina di metri.
“Ora gira a destra e torna
indietro!”
“Ma io non so fare le curve!”
“Devi solo girare il volante e
non accelerare!”
Fece quello che le dissi, o
meglio girò il volante, ma l’impulso ingovernabile di schiacciare il pedale
dell’acceleratore ci portò a fare una curva da macchina da rally.
“Non male, dai!”
Rifece lo stesso giro per un
paio di volte impostando sempre correttamente la curva:
“Ora svolta a sinistra!”
“Sei matta?!?!? Lì le macchine
passano!”
“Sì, ma quante? Una ogni ora…
e poi hai già imparato come si fa!”
Si lasciò convincere dale mie
parole. Notai le impronte delle sue mani sul volante. Era l’adrenalina che
gliele faceva sudare. Si sporse verso il parabrezza per assicurarsi che non
passasse nessuno. Imboccò la strada, scalando le marce, senza che le dicessi
nulla.
“All’incrocio giro a sinistra
e poi mi fermo” disse.
Mancavano pochi metri
all’incrocio, quando vidi un furgone rosso muoversi nel senso di marcia opposto
al nostro, avanzare con prepotenza.
Anzichè frenare, per dargli la
precedenza, l’istinto portò Martina ad accelerare e poi sterzare tutto a
sinistra. Il furgone non rallentò.
“Oh mio dio!!!!!!!!!!!!!!!”
urlammo all’unisono.
“Ci prende, ci prende!”
ripetè.
“Frena! Schiaccia il pedale al
centro!” esclamai, cercando di sembrare calma e tranquilla. Raddrizzò il volante
e presa dal panico mollò
bruscamente tutti I pedali. La macchina fece un balzo in avanti per poi
bloccarsi, provocando un forte scossone. La seniti vibrare per effetto del
passaggio del furgone a pochi millimetri dalla fiancata di sinistra.
Restammo in silenzio per
qualche secondo: Martina era
spaventata e io mi sentivo responsabile.
“Stai bene?” domandai;
“Credo di sì…..scusami!”
Scesi dall’auto per cambiare
posto: lei non si mosse. Abbassò il finestrino: “Guido io fino a laggiù!”
La guardai perplessa e allo
stesso tempo meravigliata: Sei sicura?”
“Sicurissima: è una sfida con
me stessa, non posso sempre uscirne vinta!”
Non dissi nulla e tornai a
sedermi accanto a lei. Partì senza mostrare alcuna esitazione: inserì la prima
e poi la seconda e di nuovo le mani strette sul volante. Mi guardò con la coda
dell’occhio. Sorrisi.
Frenò, scalando dalla terza
alla seconda, quindi spense il motore:
“Ora andiamo a casa, che ne
dici?” domandò, tirando il freno a mano e slacciandosi la cintura.
Notai sul suo volto
un’espressione di soddisfazione:
“Sei stata grande!”
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