Foto di Cristina Barbieri |
Il 10 aprile, oltre ad essere
il diciannovesimo compleanno di Irene, era anche il venticinquesimo compleanno
di Benedetta. Le regalai un paio di orecchini d'argento con la promessa che
saremmo andate insieme a farci i buchi, da sempre voluti, quanto temuti.
Eravamo inspiegabilmente terrorizzate entrambe dalla pistola che con colpo
sicuro avrebbe forato i nostri morbidi lobi. Con grande coraggio ci dirigemmo
dal gioielliere dove le avevo comprato il regalo: avevo già un piede nella tana
del lupo, quando Benedetta mi afferrò il braccio:
"Guarda che non dobbiamo
per forza farli oggi!"
Le presi la mano e la guardai
dritta negli occhi:
"o lo facciamo ora, o,
conoscendoci, non lo faremo mai più!"
Finalmente decidemmo di
entrare: eravamo attorniate da un gioco di luci e colori che riflettevano l'oro
e l'argento, di cui il negozio straboccava.
Prendemmo posto su due
seggioline, situate dietro il bancone: marito e moglie, proprietari della
gioielleria si munirono di cotone, orecchini e pistola, pronti per
impossessarsi dei nostri lobi.
"Tranquille ragazze, non
ve ne accorgerete nemmeno!" ci rassicurò la donna. Benedetta alzò gli
occhi al cielo e respirò profondamente.
BUM: fuoco. E uno era andato.
BUM, di nuovo. E anche il secondo era stato fatto. Sentii mia sorella di nuovo
respirare. I suoi occhi si aprirono e di seguito un sorriso di soddisfazione.
Si lasciò sfuggire un lieve gemito di vittoria: "Sono sopravvissuta!"
esclamò ridendo.
Per pranzo andammo al Panino
Giusto per gustarci i nostri favolosi "Diplomatici", lì ci raggiunse
la Ferrari con Sveva. Ormai era entrata a far parte della nostra famiglia,
visto che non molto numerosa, le new entries erano ben accette. Aveva amato mio
padre, pur sapendo che era sposato, è vero, ma non potevo fargliene una colpa.
O per le meno non potevo addossarla solo a lei. Non sarebbe stato giusto e poi
era stata in grado di trasmettermi un sincero affetto di cui sentivo di avere
bisogno in quel periodo della mia vita: quindi l'accettai e basta.
Ecco che la porta a vetri
venne aperta da due sagome conosciute:
" 'giorno Michi (dopo
tutti gli accadimenti che ci avevano coinvolte, "prof" la chiamavo
solo a scuola)! Ciao amorino!" diedi un bacio a Sveva che, come sempre,
aveva il sorriso stampato.
Provai ad estraniarmi per
vedere come potevamo apparire agli occhi di sconosciuti: mi parve una bella
immagine, omogenea e, soprattutto, compatta.
La casa di Irene, situata in
una tranquilla zona residenziale della tanto caotica Milano, si ergeva su tre
piani con terrazzo sul tetto: tutt'intorno al primo piano correva un'ampia
veranda da cui giungeva il suono di molte voci e la musica non troppo alta.
C'era anche un barbecue acceso e
presto si diffuse in tutto l'ambiente il profumo di salsiccia e hamburger.
Entrai per mano a Paolo: immediatamente mi vennero in contro Marta e Meggie.
Gliele presentai.
"Irene?" domandai,
guardandomi in torno.
"Credo sia..." Marta
non fece in tempo a terminare la frase che alle sue spalle comparve la mia
diciannovenne preferita: i suoi riccioli pendevano come fusilli bagnati,
indossava uno splendido abito rosso con decoltè nere e l'insieme risaltava il
suo fisico atletico. Le andai in contro e l'abbracciai forte:
"Auguri!!!"
"Grazie!!! Meno male sei
arrivata: sono agitatissima, ho sempre paura che le feste non decollino!"
"Non ti preoccupare, la
faremo decollare! Ho una fame che divorerei qualunque cosa!" ammisi,
dirigendomi verso la veranda.
"Ah mi sono scordata di
dirti una cosa!"
"Che cosa?" domandai
meravigliata.
"Ehi!" una voce
maschile, decisamente familiare, si inserì tra me e Irene, mi voltai.
"Ciao Filippo!"
"Ciao Matilde!"
Ci osservammo per qualche
istante: " E' da un pò che non ci vediamo: come stai? Come va con il tuo
soldatino?"
"Stai forse parlando di
me?" si introdusse Paolo, prendendomi la mano.
Filippo gli diede una pacca
sulla spalla, come gesto di estrema confidenza: "We, ti vedo in gran
forma!" esclamò, scrutandolo dalla testa ai piedi: "Ti fermi o sei di
passaggio?"
L'argomento non lo avevo
ancora volutamente affrontato, volsi lo sguardo verso Paolo, in attesa delle
parole che avrebbe pronunciato:
"Purtroppo sono solo di
passaggio: tra una settimana devo tornare in caserma!"
Sentendo quella risposta, il
mio corpo si irrigidì, quasi senza accorgermene tolsi la mia mano dalla sua: "Irene, andiamo a bere
qualcosa?"
"Ho detto qualcosa di
sbagliato?" chiese Filippo, già pronto a rimediare con la sua
irrefrenabile parlantina.
"No, tranquillo, tu
no!"
Il mio sguardo severo, ma allo stesso tempo sconcertato si posò su
Paolo, poi con andatura rapida, mi spostai nel salone, seguita da Irene:
salutammo qualche volto conosciuto per poi fermarci al tavolo degli alcolici,
dove il cugino di Irene ci servì una vodka lemon. Dalla fessura della finestra
vidi Paolo conversare con un paio di ragazze del mio liceo. Non sembrava per
nulla turbato dal fatto che mi fossi allontanata da lui. Inspirai profondamente
ed espirai piano:
"Ehi cosa succede?"
"La verità, Irene, è che
non credo di farcela!"
"A fare cosa?"
"A mantenere una storia a
distanza, in cui ci si può vedere solo in date prestabilite!"
"Ti capisco! Ma ne avete
parlato?"
"No, sembra che entrambi
non vogliamo affrontare il problema. Solo che io poi ne vengo a parlare con te,
facendoti capire quanto stia male, mentre lui va a fare il brillante con le
altre!"
"Credimi, dovreste
parlarne e il prima possibile, se no va a finire che banali incomprensioni,
assumano un peso troppo elevato!"
"Hai ragione! Stasera
però voglio concentrarmi solo su di te: che ne dici di un brindisi?"
"Abbiamo appena bevuto
una vodka lemon a stomaco vuoto?!"
"Che sarà mai...i
diciannove anni si festeggiano una sola volta nella vita!" le feci
l'occhiolino e afferrai la bottiglia di spumante dal secchiello del ghiaccio.
Mentre sorseggiai la bevanda
sentii prima la schiuma e poi le bollicine solleticare la lingua, come tanti
piccoli spilli. I miei occhi continuavano a puntare Paolo, se ne accorse. Mi
voltai di colpo e ingurgitai tutto di un fiato.
"Dai, balliamo!"
Filippo mi afferrò una mano e mi trascinò in mezzo alla stanza: stavo già
divincolarmi, ma poi vidi che Paolo si era girato e mi stava guardando:
"Va bene, ma toglimi una
curiosità, da quando ti piace ballare?" Appoggiai una mano sulla sua
spalla e mi misi a ballargli accanto.
"Da un pò...ti muovi
benissimo, sai?" mi sussurrò all'orecchio, facendomi scorrere le mani
lungo la mia schiena. Mi accorsi della precisione con cui si muovevano i nostri
bacini, forse troppo, improvvisamente comparve Paolo che mi piazzò un bicchiere
in mano:
"Bevi!" mi disse
senza darmi tempo di poter rifiutare.
Mi staccai da Filippo:
"Finito o disturbo?"
domandò con evidente sarcasmo.
"Stiamo solo
ballando!" spiegai con tono del tutto innocente.
"Allora se così è vi
lascio pure continuare, io vado a casa!"
Si allontanò, sparendo in
mezzo a tutta la gente che si era riversata nella stanza negli ultimi cinque
minuti.
"Scusami Filippo, ma devo
andare!"
Mi feci largo e finalmente raggiunsi la veranda, guardai a destra
e poi a sinistra: di Paolo non c'era traccia, mi affacciai per vedere se si era
effettivamente diretto alla macchina. La strada era deserta. "Maledizione!"
Rientrai passando per la cucina, quindi fermandomi nel secondo salone meno
affollato. Non era nemmeno lì. Per un attimo chiusi gli occhi, come per volermi
isolare da tutto e capire cosa avrei dovuto fare. Sentii due braccia forti e
muscolose cingermi la vita: misi le mie mani sulle sue. Riaprii gli occhi e mi
voltai.
"Non ti trovavo da
nessuna parte! Se vuoi andare, vengo via con te!"
"Restiamo: è la festa
della tua migliore amica!"
"Sicuro? Lei
capirebbe"
"Sicuro!"
Visti i nostri stati d'animo,
avremmo fatto meglio ad andare
ognuno a casa sua. Invece, decidemmo di restare: lui in disparte, senza
partecipare alle conversazioni e guardandosi intorno, come per studiare il mio
mondo. Mi accorsi subito che era più distaccato del solito, era completamente
assente e tutte le volte che gli chiedevo se c'era qualcosa che non andava, lui
negava, quasi infastidito: "Sono solo un pò stanco!"
Cercai di rimediare,
prendendogli di tanto in tanto la mano, parlando di lui e della sua vita da
soldato alle altre, poi però mi stancai del suo atteggiamento e ci rinunciai.
Era intrattabile e io stanca. Tornammo a casa senza rivolgerci la parola. Lo
salutai senza nessun tipo di contatto fisico e scesi dalla macchina.
"Matilde?"
"Sì?"
Mi guardò restando in silenzio
poi distolse lo sguardo:
"Niente, buona
notte!"
"Buona notte!"
Delusa e arrabbiata del suo
silenzio, mi buttai sul letto, sperando di addormentarmi il prima possibile.
Non fu così. Ci misi tanto ad addormentarmi: i miei occhi puntavano il
cellulare, sperando di ricevere un suo messaggio. Niente di niente. La mattina
dopo mi alzai ancora più nervosa della sera prima.
Mi svegliai presto, senza fare
troppo rumore, lavai e vestii Sveva e uscimmo di casa. Benedetta non avrebbe
aperto gli occhi prima dell'ora di pranzo.
Alle 12.30 avevamo finito il
nostro giro, Benedetta si era appena alzata, le preparai una tazza di caffè e
nel frattempo misi a bollire l'acqua per la pasta. Ormai conoscevo gli orari di
Paolo, sapevo che anche lui era un mattiniero, eppure non avevo ancora ricevuto
una sua chiamata. Non avendo nient'altro da fare, mi sdraiai sul divano letto e
accesi la televisione. Solo Tg e spot pubblicitari, ascoltai qualche notizia di
cronaca, poi mi stufai e la spensi. Il tempo sembrava non voler passare. Mi
alzai per andare a controllare l'acqua. Ancora non bolliva, presi un coperchio
e lo adagiai sopra alla pentola. Mi spostai nella mia stanza: per ingannare
l'attesa, cominciai ad appendere tutti i vestiti accatastati sulla sedia e
sulla scrivania e a sistemare i giochi di Sveva. Una volta finito, andai in
bagno per vedere a che punto era Benedetta: le sue docce sapevi quando
inziavano, ma mai quando finivano. La sollecitai, fingendo che avevo già calato
da qualche minuto la pasta. Nel frattempo ne approfittai per lavarmi per la
terza volta i denti. Quindi andai in cucina e finalmente potei calare due etti
di penne rigate. Nessun segno di lui. La cosa mi stava lentamente sfinendo,
provai a rassicurarmi, convincendomi che molto probabilmente aveva una
spiegazione plausibile e me lo ripetei circa un milione di volte. Andai sul
balcone per prendere un pò d'aria: diedi una rapida occhiata alla strada, il
parcheggio era mezzo vuoto.
"Va tutto bene?" mi
domandò Benedetta, comparendomi alle spalle: "Ti ho sentito parlare da
sola e mi sono preoccupata!"
"Sìsì, figurati, era solo
una prova di autoconvincimento finita male!"
In quell'esatto istante, vidi
l'acqua uscire dalla pentola: "Maledizione!" soffiai sulla schiuma che si era
formata e abbassai la fiamma, troppo, infatti si spense:
"al diavolo, la mangeremo
un pò al dente!"
Benedetta si accorse che non
era il momento per contestare la mia decisione: mi passò le pattine e si
sedette a tavola.
Passò mezzora, un'ora. Quando
sentii il cellulare suonare, lo afferrai con rabbia, il nome Paolo appariva a
intermittenza sul display: respirai profondamente e risposi.
"Pronto?"
"Ciao Matilde!" La
sua voce era quasi allegra.
"Ciao Paolo!" la mia
un pò meno.
"Ti ho disturbato? stavi
mangiando?"
"No, abbiamo appena
finito!"
"Scusa se non ti ho chiamato
prima, ma ho accompagnato mia mamma in campagna dalle mie zie e sono appena
tornato!"
"Capito!" dissi,
soltanto.
"Che cosa c'è?"
"Niente!" mentii.
"Sei sicura che vada
tutto bene?"
"Hai ragione non sono
sicura, forse dovresti spiegarmi il perchè di questo tuo modo di comportarti!
La cosa sta diventando un pò
irritante!"
"Ieri sera, tu...?"
"Io cosa?" lo
interruppi subito; "non dare la colpa a me, non ci provare: eravamo a una
festa, ci saremmo potuti divertire...se tu non te ne fossi stato muto, in disparte?"
"Non hai pensato forse
che il mio comportamento dipendesse dal fatto che non avevo voglia di stare
lì?"
"E' inutile, non ne
veniamo a capo! Ti saluto!"
"Aspetta!"
"Sono stufa, Paolo, sono
stufa e stanca... la nostra storia è destinata a non funzionare. Ci sono troppe
cose che non vanno come dovrebbero andare. Ho solo diciotto anni e ancora non
sono in grado di gestire una storia simile!"
"Ti prego non dire così!
Dammi dieci minuti e sono da te così
ne parliamo con calma!"
restai in silenzio:
"Ci sei?"
"Ti aspetto. Ciao!"
Suonò il citofono: lo feci
salire e ci chiudemmo in camera mia.
"Credi davvero nelle cose
che mi hai detto?"
Lo guardai dispiaciuta:
"Non lo so! So soltanto che alle mie amiche non ho fatto altro che parlare
di te, dicendo loro quanto fossi in gamba, quanto fossi maturo, quanto fossi
speciale... e loro, invece, hanno visto un lato di te che non conoscevo nemmeno
io! Oggi mi sono dovuta scusare con Irene, i suoi amici dicevano che lanciavi
certe occhiatacce!"
"Mi spiace per ieri sera..."
"fai bene...loro sono i
miei amici. Irene è la mia migliore amica!"
"Lo so!"
"E allora cosa sta
succedendo?"
"Ieri festa di Irene,
comunque vai tutti i giorni a scuola e devi studiare, devi fare babysitter un
giorno sì e uno no, hai i tuoi
amici e io?? tra meno di una settimana riparto...vorrei solo che passassimo più
tempo insieme, vorrei che le cose fossero come prima che io partissi!"
"E' questo che ti dà
fastidio? il fatto che io abbia la giornata organizzata da quando mi sveglio a
quando vado a dormire? Che cosa vorresti che facessi? Che annullassi tutti gli
impegni della settimana? E' la mia vita, lo è quando ci sei e soprattutto
quando non ci sei!"
"Maledizione, volevo solo
passare più tempo possibile con te! Tutto qui!" Replicò per l'ultima volta,
poi afferrò le chiavi della macchina e uscì di casa.
Lo guardai uscire, ma non lo
fermai. Di stare a casa non ne volevo sapere, perciò trascinai in giro per la
città Benedetta: negozi, merenda, parco e di nuovo a casa. Volevo stancarmi il
più possibile per poi arrivare a casa esausta, mangiare e crollare in un sonno
profondo.
Giunta nella mia via, vidi la
macchina di Paolo parcheggiata esattamente accanto alla nostra, mi avvicinai,
aprii la portiera:
"Ciao!"
Mi guardò e accennò una specie
di sorriso, leggermente coperto dalla barba che stava crescendo:
"Ti va di andare a fare
un giro?"
La mattina seguente sarei
dovuta andare a scuola e già potevo immaginare cosa mi avrebbe detto Benedetta:
la guardai, sperando di ottenere il suo consenso senza troppo giri di parole:
"Perfavore non fare
tardi!"
"Grazie, prometto che non
starò fuori molto! E grazie per la giornata di oggi!"
Salii in macchina e ci
allontanammo dalla mia strada. Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto: poi
si fermò.
"Dove siamo?" domandai
guardandomi intorno.
"Non ti ricordi
proprio?"
C'era poca luce, alzai la
testa: riconobbi la terrazza.
"Siamo alla Taverna del
tempo perso... ma la strada che abbiamo fatto non mi è sembrata la
stessa!"
"Ottima
osservatrice...ora siamo sul retro, così possiamo raggiungere la terrazza senza
dover passare per il ristorante!" e mi mostrò le chiavi. Mi fece strada,
lo seguii, prima di entrare, gli afferrai la mano, proprio come era successo al
nostro primo appuntamento: "Colpa del buio!" mi giustificai, lasciando
sfuggire un sorriso.
Percorremmo due rampe di
scale: si mise dietro di me e le sue mani coprirono i miei occhi: sentii sul
sottofondo la canzone "Kiss the rain", in quel momento le mie gambe
cominciarono a tremare.
"Ci siamo quasi! Attenta
al gradino... sei pronta?"
Respirai profondamente:
"Sono pronta!"
Tolse le mani: per un attimo
pensai che il mio cuore non avrebbe retto un'emozione simile, lo sentii
accelerare come mai era successo. C'erano cesti di margherite e girasoli che
portavano a una coperta di seta, su cui era stato apparecchiato con servizi
d'argento, il tutto circondato da un cuore di candele e da sottofondo
continuava ad esserci la nostra canzone. Si strinse a me, avvertii il calore
del suo corpo: "Mi hai sempre detto che le rose non ti piacevano..."
mi sussurrò all'orecchio, poi mi prese per mano:
"Avevi ragione tu, ho
sbagliato e ho agito senza pensare...mi dispiace!" il mio indice toccò le
sue labbra.
"Cerco di essere piena di
impegni perchè mi illudo che così sia meno difficile separarci, sì insomma,
capisci cosa intendo dire? Tra pochi giorni partirai di nuovo e chissà tra
quanti mesi ci rivedremo, mentre io dovrò continuare per la mia strada."
Mi sedetti sui cuscini attorno
a quella tavola perfetta: lui si chinò e mi baciò.
"Ora siamo insieme: io e
te!"
Mi strinse a lui,
accarezzandomi il viso, chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da quelle
parole.
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