Foto di Cristina Barbieri |
A partire da gennaio del 1999
cominciai il conto alla rovescia del tempo che mancava alla licenza di Paolo,
prevista per Aprile, ma non fu l’unico mio pensiero: di lì a pochi mesi ci
sarebbe stata la maturità e la scelta incombente sul mio futuro, che ancora mi
sembrava un grosso buco nero. Benedetta insisteva molto con economia: non era
una strada nuova, visto che era già stata sperimentata da mio padre e da mia
sorella e forse per questo sarebbe stata più facilmente percorribile. Benchè la
cosa mi convincesse poco per evitare di deludere l’aspettativa di Benedetta e
crearle ulteriore amarezza, le dissi che l’avrei presa in seria considerazione.
Allo stesso tempo però non mi lasciai sfuggire gli incontri di orientamento per
la facoltà di giurisprudenza e lettere moderne. Piccoli dettagli che in quel momento
preferii non riferirle.
L’8 Gennaio mi ritrovai di
nuovo tra i banchi di scuola e mi domandai cosa spingesse una persona a fare
l’insegnante…secondo me nella maggior parte dei casi: il potere di onnipotenza
che possono esercitare su noi studenti. Insomma, ho conosciuto molti professori
che insegnano e se ne fregano di cosa pensano di loro gli alunni. Dominano la
classe con severità spesso eccessiva che sfocia nella minaccia per eccellenza:
l’insufficienza. Sono duri, pretendono troppo e non li si contraddice solo per
paura di una tremenda vendetta. Trovo che sia il peggior modo di insegnare a
una persona come stare al mondo. Il bravo insegnante è la persona carismatica,
che sa catturare l’attenzione di chi ha di fronte, ossia adolescenti spesso fastidiosi,
mantenendo la disciplina. Questi sono pensieri di una giovane alunna che trae
le sue conclusioni dopo 13 anni di esperienza scolastica, vista dal lato dei
banchi sgangherati e non della cattedra.
Pochi minuti dopo il suono
della campanella comparve la Ferrari, che non vedevo dal giorno di Natale:
“Buon giorno classe!”
Mi guardò e mi fece
l’occhiolino: sorrisi, in quello stesso istante sentii vibrare qualcosa nella
mia borsa. Sapevo che non poteva essere il mio cellulare dal momento che lo
tenevo sempre e solo rigorosamente silenzioso, perciò infilai la mano e
cominciai a cercare la fonte di quel sottile rumore incessante.
“Che cosa ci fa il cellulare
di mia sorella nella mia borsa, accidenti!” pensai estraendolo:
una chiamata persa e un
messaggio. La chiamata persa era di Enrico, il messaggio pure. Anziché, però,
uscire dalla cartella messaggi ricevuti, involontariamente la aprii e l’intero
schermo del cellulare venne occupato da una scrittura quasi indecifrabile, ma
il senso lo capii perfettamente al punto che l'oggetto mi cadde dalle mani,
facendo un tonfo pazzesco che rimbombò in tutta la classe.
“Matilde, guarda che ti è
caduto il cellulare!” esclamò Matteo, dandomi una gomitata; non ebbi alcun tipo
di reazione, al che, vedendomi in quello stato semi-vegetativo, si abbassò e lo
raccolse lui da terra. In quel momento non so cosa mi prese, ricordo che glielo
strappai di mano con forza:
“Non è roba tua, capito?”
Rimase esterrefatto:
“E non mi guardare così!
Quando imparerai a farti i cavoli tuoi?”
Intervenne la Ferrari:
“Cosa sta succedendo?”
“Posso andare in bagno?” la
supplicai.
“No, Matilde, aspetti il suono
della campanella!”
Non era quello che volevo
sentirmi dire: Afferrai la giacca e corsi fuori, senza il suo permesso, senza
dire nulla, senza soffermarmi a pensare che cosa stesse succedendo. Lo feci e
basta. Scesi le scale di corsa ed entrai nella prima aula vuota: sentivo il
battito del mio cuore accelerare con insistenza, la pelle sudare. Mi mancava
l’aria. Il destinatario di quel messaggio non poteva essere mia sorella, eppure
cominciava con “ehi Benny”. Mio Dio, non poteva trattarsi della mia Benedetta,
no, lei non sarebbe arrivata a tanto. Lo rilessi un milione di volte, ormai era
perfettamente stampato nella mia testa.
Digitai il numero di Enrico:
la mano tremava. Era libero:
“Ciao Benny!”
Presi coraggio:
“Non sono Benedetta! Mi fai
schifo, sei un lurido porco!!! Come hai potuto usare così mia sorella?”
“Primo calmati, secondo, mi
sembra che tua sorella sia stata sempre consenziente!”
“Come puoi dire una cosa del
genere? Lei lo ha fatto per disperazione…e tu te ne sei approfittato!”
“Ma Matilde, pensi di trovare
altri bilocali a un prezzo simile?”
“Che stupida siamo nel XX
secolo, ma ancora si paga in natura… scusami tanto, me n’ero scordata! …Tu
prova ad avvicinarti ancora una volta a mia sorella e sei un uomo morto!”
“Che paura!!! Ti dico una
cosa: avete toccato il fondo, peggio di così non vi può andare e il fatto che
tua sorella si conceda a me per garantire un tetto a te e a Sveva dovrebbe
farti capire che se anche tu ci mettessi del tuo probabilmente in questo
momento non staremmo conversando al telefono! E per “del tuo” intendo anche
…qual è il termine che prima hai utilizzato? Ah sì, pagamento in natura!”
Misi giù la chiamata: ero
furibonda, ero disgustata. Avrei voluto gridare per liberarmi dallo schifo che
si era lentamente avvinghiato a me, ma alla fine mi limitai a soffocare un
pianto disperato.
Appena misi piede fuori
dall’aula in cui mi ero rifugiata, mi trovai di fronte alla Ferrari. Si accorse
di quanto fossi sconvolta, la guardai, scossi la testa e le lacrime che stavo
tenacemente trattenendo, appannarono la vista rendendo sempre meno nitida la
sua immagine. Si mosse verso di me. Mi strinse in un abbraccio fortissimo:
“Mi mancano!” esclamai, “Io ho
bisogno di loro!”
Alle 13 spaccate io ero seduta
sul divano del nostro bilocale che fissavo incessantemente la porta,
nell’attesa che venisse aperta. Ero lì, ferma immobile, come una statua di cera
e poi, finalmente, sentii il rumore della chiave girare nella serratura.
“Ehi, chi si vede?! Credevo
fossi ancora in giro!”
“Ciao Benedetta!”
“Come sei seria! E’ successo
qualcosa?”
“Ho solo un oggetto che ti
appartiene!” le porsi il cellulare.
“Ecco che fine aveva fatto!
Perfortuna lo avevi tu!”
“Già…però non so se per fortuna...o purtroppo!”
“Matilde, se mi devi dire
qualcosa, dillo e basta!”
“Mi fai schifo, Benedetta, non
pensavo potessi arrivare a tanto con Enrico…ho scoperto il vostro patto: sesso
anziché pagamento in contanti!!!! Ma come hai potuto? Ah comunque Enrico mi è
sembrato poco soddisfatto nel messaggio che è arrivato stamattina!”
Lei era lì in piedi, con lo
sguardo perso nel vuoto e i suoi grandi occhi nocciola lasciavano intravedere
il suo smarrimento. Dovette cercare una sedia per sedersi.
“Tranquilla ti lascio il
divano! Io esco!”
Mi infilai il cappotto, mi
attorcigliai al collo una sciarpa di lana pesante e uscii sbattendo la porta.
Camminavo a passo sostenuto
senza avere in mente una meta precisa. L’aria fredda mi scompigliava i capelli.
Strinsi le mani infreddolite in pugni. Brava scema che nel voler uscire di casa
in maniera fulminea mi ero scordata di prendere i guanti abbandonati nel caos
della mia stanza.
Proseguivo per le vie spoglie,
desolate. Nessuno voleva camminare. Tutti si muovevano solo con la macchina. Un
movimento lento e le file interminabili ai semafori lo dimostravano.
Mi ritrovai a pochi metri
dalla casa di Filippo, vidi la sua auto parcheggiata. Mi avvicinai. La
osservai: notai che appeso allo specchietto retrovisore c’era ancora il
portachiavi a forma di mucca che gli avevo regalato prima dell’estate. Era
perfettamente lucida. Come sempre.
“Ehi, ragazzina, non ti ha mai
detto nessuno che avvicinarsi troppo ad un auto di lusso potrebbe far scattare
l’antifurto?”
Alzai lo sguardo: appoggiato
al davanzale della finestra di camera sua c’era Filippo.
“Solo perché ci sono “W”
sparse un po’ dentro e un po’ fuori non oserei definire quest’auto di lusso!”
“Ah sì? Se hai il coraggio
ripeti quello che hai detto tra due minuti quando mi avrai di fronte!”
“Ti aspetto!”
Ecco che comparve davanti a me
in tenuta sportiva: tuta adidas e all star blu.
“Stavamo dicendo?” non perse
tempo a riprendere il discorso.
Mi afferrò da dietro e mi mise
le mani sui fianchi: “Dai ti sfido! Dimmi di nuovo che non è un auto di lusso e
sarai sottoposta alla tanto da te temuta tortura cinese!”
Iniziò a farmi il
solletico:
“Ok,ok mi arrendo!” Mi bastò
che mi sfiorasse appena i fianchi perché fossi già piegata in due dal ridere:
“Ma così non vale! Sai bene che in questo modo perdo completamente la capacità
di intendere e volere!”
“Ora ripeti con me: la Golf
nera di Filippo è un auto non di lusso di più!” mi fece l’occhiolino.
“Come mai da queste parti?”
Se per un attimo accantonai il
motivo che mi aveva spinto fino a casa sua, in quel momento ripiombò tra capo e
collo.
“Ti va di fare due passi?” Gli
allungai la mano, lui l’afferrò: “Certo!”
Gli raccontai del messaggio
che quella mattina Enrico aveva scritto a Benedetta, della chiamata e della
scoperta del loro “patto”. Anche Filippo nel sentire tutte quelle cose rimase
senza parole:
“hai già parlato con tua
sorella?”
“Ero furibonda e le ho detto
tutto quello che pensavo! Cosa dovevo fare??? Dirle oh poverina, quanto mi
dispiace che tu ti sia trovata costretta
a fare sesso sfrenato con un viscido schifoso??? Filippo, lei non si è
mai tirata indietro, ti rendi conto?”
Rimase in silenzio: “Non pensi
che l’abbia fatto per te e Sveva? Per garantirvi un tetto!?”
“Per me e Sveva?? Lei lo fa perché vuole farlo, perché è
ancora innamorata di lui e si sa che l’amore fa perdere completamente il lume
della ragione!”
“E la dignità e l’orgoglio?
Credi che lei all’età di ventiquattro anni possa essere ancora così ingenua? Mi
sembra che negli ultimi quattro mesi si sia fatta in mille per stare dietro a
Sveva, a te, alla vostra vita….e pensi davvero che una persona così in gamba
possa arrivare a tanto solo per il gusto di farlo? Credimi, se Benedetta ha
accettato questa situazione imbarazzante, per te e per lei stessa, è perché
credeva di non avere altra scelta. Si è trovata a dover sfamare tre bocche con
uno stipendio che a malapena ne sfama due e un’eredità che si è dimezzata, se
non di più, a causa di un grosso debito inaspettato, per non parlare della
quantità infinita di preoccupazioni e responsabilità che l’ha improvvisamente
investita.”
Lui ci credeva davvero a
quello che stava dicendo, era serio. Nessuna frase di circostanza o pronunciata
esclusivamente con l’intento di alleviare la mia sofferenza.
Lo abbracciai: le sue braccia erano strette a me e le
mie a lui. Mi spostò i capelli dietro all’orecchio:
“E’ la verità!” mi sussurrò.
“Lo so!” e una lacrima scese
fino a toccare la sua spalla.
Mi accompagnò fino a casa: “E
ora?” domandai con la speranza che Filippo mi porgesse la soluzione su un
piatto d’argento.
“E ora va’ da lei e
abbracciala forte….capirà! Nel frattempo dobbiamo pensare a come rendere la
vita di quell’uomo, impossibile!”
Rimasi un attimo in silenzio,
concentrata nei miei pensieri: “Ci sono!” esclamai improvvisamente.
“Nel messaggio che ho letto
oggi, lui diceva che domani i due avvocati da cui fa praticantato si prendono
la giornata sabbatica e quindi invitava lì mia sorella per fare…sì insomma hai
capito!”
“E quindi?”
“E quindi domani mattina Benedetta
rispetterà l’impegno a cui tra poco darà la conferma, io andrò con lei,
illudendo quel verme schifoso che vogliamo fare una cosa a tre, soddisfando la
sua richiesta e tu chiamerai gli avvocati, fingendoti un ipotetico cliente la
cui vita dipende esclusivamente da loro!”
“Geniale…colto in flagranza di
atto osceno in luogo pubblico: mi sa che questo scherzetto gli costerà non poco
la carriera!”
“Mi sa anche a me, dato che i
coniugi Colombo sono due pezzi grossi del mondo legale!”
E per il numero di telefono? Come facciamo ad avere il loro
numero di cellulare?”
“Benedetta dopo aver accettato
l’invito di Enrico, gli chiederà il numero dell’avvocato che si occupa del
diritto commerciale, con la scusa che le serve una consultazione di un esperto
circa la questione dello studio di mio padre!”
“Hai pensato a tutto!!!!”
“Ti giuro che non era nulla di
premeditato… credo sia merito della disperazione! Comunque stasera ti scrivo un
messaggio con il numero e domani mattina, appena sveglio chiami!”
“Sì capo, ai suoi ordini!”
disse facendo il saluto da soldato; sorrisi, gli diedi un pizzicotto sulla
guancia, seguito da un bacio:
“Grazie!”
“E per cosa?....ora và da
lei!”
Feci quello che mi disse:
corsi da lei e la abbracciai forte. Strinsi il suo viso tra le mie mani: “Ne
usciremo insieme! Perdonami!” esclamai. Vidi i suoi occhi diventare lucidi:
“Credimi, mi faccio schifo…non
pensavo di arrivare a tanto pur di sopravvivere!”
“Ascolta ho un piano…” Glielo
esposi così come lo avevo ideato con Filippo:
“E poi? Che ne sarà di noi?
Dove andremo a vivere?”
“Una cosa per volta! Iniziamo
a fargliela pagare e poi da dopodomani ci penseremo!... Allora? Ci stai?” le
allungai la mano;
“Certo!” me la strinse: “Meno
male che ci sei!” aggiunse;
“Sono io che lo dico a te!”
dissi, facendole l’occhiolino.
“C ved dom matt alle 10…nn
vengo sola ; ) ! mi mandi il num di cell dell’avv Colombo x consultaz studio di
mio padre?”
“Inviato!” esclamò Benedetta,
lasciando scivolare sul divano il suo nokia ancora in bianco e nero. Pochi
secondi e si illuminò:
“Xfetto vi aspetto…nn vedo
l’ora! Ecco il num: 346XXXXXXX. a domani. E.”
“Evvai!” diedi un cinque a
Benedetta. Mandai immediatamente a Filippo il numero dell’avvocato,
avvertendolo che noi saremmo andate da Enrico per le dieci.
Mi coricai sotto le coperte,
assaporando la nostra piccola rivincita.
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