CAPITOLO 14 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri
Tennyson scrisse: "Una tempra di cuori eroici, resi deboli dalle fatiche e dal destino, ma forti nel voler lottare, cercare, trovare e non cedere mai."

  
La sveglia suonò alle 8.30. La moka era già sul fornello che borbottava come ogni mattina e Benedetta stava lavando e vestendo Sveva. Mi trascinai sul divano, aspettando il mio turno in bagno: pensai a cosa avrei saltato a scuola. Ovviamente nulla. Nessuna interrogazione e nessuna verifica prevista per quel giorno.  Il caffè era pronto: mi riempii una tazza e riempii quella rossa per mia sorella:
“E’ pronto!”  
“Arrivo, finisco con Sveva!”
“Guarda che si raffredda!” 
“Potresti anche portarmelo!”
Afferrai la tazza bollente con la pattina e la raggiunsi: “Tieni!” 
“Cos’è questo muso? Ieri sera mi sembravi soddisfatta e convinta del nostro piano!”
“Già…!” 
“Ohi non ti starai mica tirando indietro?” domandò con tono che si fece più serio.
“No no è solo che ho paura di non farcela…sì insomma metti che qualcosa vada storto?” 
“Credimi, insieme ce la faremo…ho fiducia in noi e soprattutto in te! Non vorrei altra persona al mio fianco!”
I miei occhi brillarono, le stampai un bacio sulla guancia: 
“Da quando sai dire quello che vorrei sentirmi dire?”
“Non credevo avessi una considerazione così bassa di me?!” disse dandomi un pizzicotto sulla gamba. 
“Mutande rosse o nere?”
“Dai scema…i tuoi mutandoni alla Briget Jones andranno alla grande!” esclamò ridendo. 
“Sfotti sfotti!!!” Le feci il gesto di legarmi al dito quello che aveva appena detto poi andai in camera mia, molto più tranquilla e rilassata.

“Ricordiamoci stasera prima di tornare a casa di passare al supermercato per prendere un po’ di scatoloni!”
“Cosa odono le mie orecchie? Facciamo, forse, del sarcasmo? …magari, però, prima di riempirci di scatoloni ci conviene trovare un monolocale in cui poi portarli!” ribattè con tono brioso.
“Carina la battuta del monolocale! Ti è venuta proprio bene!” 
“Matilde, mi spiace deluderti, ma non sono mai stata così seria… Credo che sia il massimo che ci possiamo permettere!”
“Wow siamo seriamente ironiche o ironicamente serie?” 
Benedetta mi guardò con espressione corrucciata: “propenderei più per la seconda!.. E ora andiamo!”
Vidi Benedetta destreggiarsi agilmente con tacchi e le mille borse che avrebbe dovuto lasciare al nido di Sveva. Si sistemò i capelli un’ultima volta e con abile mossa afferrò le chiavi della macchina appese alla mensola del corridoio.

Osservai un po’ distratta il mondo attraverso il finestrino: ogni persona sembrava muoversi sapendo già dove le gambe l’avrebbero portata. I piedi avrebbero calpestato le strade della quotidianità e quindi inutile era l’indecisione o il fermarsi a pensare quale via percorrere. Il ritmo sostenuto dai passanti era quasi più accelerato dei mezzi a motore, bloccati nel traffico di prima mattina. Diedi una rapida occhiata al cielo speranzosa di intravedere una sottile fessura azzurra, ma nulla: la giornata era piuttosto grigia e la nebbia era lì sospesa a metà, incerta se alzarsi o abbassarsi.
La luce del semaforo diventò verde: Benedetta inserì la prima, poi la seconda e di nuovo fermi. Guardai l’orologio: 10 meno 10.
Iniziai a tamburellare nervosamente con le dita sul cruscotto: 
“Matilde va tutto bene?”
“Vedrai che arriviamo in ritardo!” esclamai sbuffando. 
“Tranquilla, Via farneti è qui dietro. Tempo cinque minuti e arriviamo a destinazione!”
 
Per fortuna Benedetta non si sbagliò nella tempistica: eccoci davanti al numero 2 di Via Farneti. Dall’imponente edificio che si ergeva di fronte a noi, uscirono due uomini in giacca e  cravatta e muniti della valigetta ventiquattrore, stracolma di documenti. Li lasciammo passare, poi entrammo: il rumore dei nostri tacchi rimbombava nell’atrio. Una signora di mezza età con il capo coperto da uno strano cappello di lana ci venne in contro: 
“Cercate qualcuno?”
Parlò mia sorella: “In effetti sì: abbiamo appuntamento con gli avvocati Colombo!”  
“Ancora non li ho visti arrivare!”
“Sappiamo che gli avvocati non ci sono, ma dovrebbe esserci il loro assistente!” 
“Allora come non detto: scala A, quinto piano!”
Ci fece gentilmente strada, poi lei proseguì verso la portineria, mentre noi prendemmo l’ascensore.
“Ci siamo!” sospirai, mi sistemai la gonna e mi passai una mano tra i capelli. Prima di suonare il campanello feci uno squillo a Filippo in modo tale che sapesse che noi fossimo arrivate a destinazione. Rispose immediatamente. Il segnale gli era arrivato, ora stava a lui entrare nella parte del cliente disperato che sarebbe arrivato a togliersi la vita se non li avesse potuti vedere entro mezzora.
Benedetta pose l’indice sul campanello d’ottone: pochi secondi dopo la porta venne aperta. 
“Quale onore vedere entrambe le sorelle Casale!” esclamò allentando il nodo della cravatta.
“Sei pronto a provare qualcosa di completamente nuovo e stravolgente?” domandò Benedetta in tono provocatorio, avvicinandosi a lui in modo sensuale e massaggiandogli le spalle.  
“Sono tutto vostro! Fate di me ciò che volete!” Si tolse la giacca gessata e la gettò sul divanetto impero dell’ingresso.
“Aspetta!” lo fermò Benedetta. Dalla borsa estrasse una sottile sciarpa infeltrita: gli bendò gli occhi. Cominciai a slacciargli la camicia, bottone dopo bottone e, facendomi forza, gli toccai le spalle, poi il petto, mi strusciai a lui, il suo braccio sfiorò il mio seno. Feci un passo indietro: 
“Bè, che succede?” domandò lui, aggrottando la fronte. Altro che tenere carezze ed effusioni, avrei voluto riempirlo di calci e ceffoni. Non ero nella condizione di poterlo fare, perciò, chiusi per un attimo gli occhi, feci un respiro profondo e mi avvicinai di nuovo al suo corpo.
Era completamente nudo, le sue mani lunghe ci  toccavano dappertutto e l’unica sensazione che provavo era di schifo. Continuavo a pensare quando quella porta venisse aperta dagli avvocati e poi la paura che non sarebbe successo. Per fortuna non fu così. Finalmente sentii il tintinnio delle chiavi: diedi un colpo di tosse per coprirlo e allo stesso tempo avvisare Benedetta che la tortura stava per finire. La porta venne spalancata e le luci accese: Enrico si strappò la sciarpa che gli copriva gli occhi per vedere cosa stava accadendo: non ci poteva credere. Davanti a lui i suoi datori di lavoro. Sbiancò, iniziò a balbettare qualcosa di incomprensibile e poi diventò bordeaux. Cercò i vestiti, li raccolse da terra e li usò per coprire il suo sesso. 
“Fuori dallo studio!” esclamò l’avvocato con rabbia e disgusto.
“Ma vi posso spiegare…!” disse Enrico infilandosi i pantaloni. 
“Allora non ci siamo capiti?!?! Lei deve uscire da questo studio e non metterci mai più piede!!!!! Sono stato sufficientemente chiaro? E si ricordi che con questa bravata adolescenziale si è giocato la sua carriera!”

Io e Benedetta prendemmo le nostre cose e sgattaiolammo fuori senza dire una parola. Una volta sul pianerottolo, scoppiammo in una risata rumorosa: pochi secondi dopo comparve di fronte a noi Enrico e sentimmo alle nostre spalle sbattere con forza la porta. Il pavimento vibrò e il tonfo rimbombò nella tromba delle scale. 
“Voi lo sapevate che sarebbero arrivati, non è così?”
“Non ti preoccupare gli scatoloni per il trasloco sono già pronti: tempo una settimana e il tuo bilocale sarà di nuovo sfitto!” disse Benedetta, legandosi i capelli. 
“Che bastarde! Vi rendete conto che per colpa vostra ho la carriera segnata?!?”
“Ragazzo mio, c’è un detto che mi sembra dica così: chi la fa l’aspetti! Finalmente un po’ di giustizia a questo mondo!” 
Ci dirigemmo verso l’ascensore: “Non vieni con noi?”
Enrico non si mosse, rimase lì fermo, attonito con lo sguardo perso nel vuoto e finalmente la consapevolezza che ogni azione ha una reazione uguale e contraria. 

Nessun commento:

Posta un commento