Foto di Cristina Barbieri |
Ancora 14400 secondi di attesa. Dalle quattro del pomeriggio
in avanti cominciai a guardare l’orologio ogni dieci minuti: le otto mi
sembravano così lontane. Picchiettai più volte sul quadrante per paura che per
qualche strano motivo le lancette si fossero fermate. Ma ogni volta rimasi
delusa: non era l’orologio a non funzionare, erano le ore che trascorrevano con
interminabile lentezza.
Accesi la televisione: Rai 1 e Canale 5
erano oscurati e gli altri canali non trasmettevano nulla di interessante o che
comunque potesse catturare la mia attenzione. Niente da fare: nemmeno la
“distrazione per eccellenza” era riuscita a non farmi pensare alla serata che
ancora doveva cominciare, a lui, a noi.
Avrei potuto chiamare Irene, sicuramente
si sarebbe precipitata a casa mia in un batter d’occhio, ma questo avrebbe
voluto dire raccontarle cos’era successo con Filippo e cosa significava per me
Paolo. Il fatto è che non ero certa di saperlo nemmeno io e come avrei potuto
spiegare ad un terzo una cosa che a me, in prima persona, era difficile
comprendere? Abbandonai l’idea di
telefonarle.
Restai immersa nei miei pensieri fino a
quando sentii vibrare il cellulare: un messaggio ricevuto.
Non volevo leggerlo: se fosse stato Paolo
che mi diceva che del nostro appuntamento non se ne sarebbe fatto più niente?
Lo lasciai cadere sul divano: di certo
una cosa del genere non avrebbe richiesto una risposta immediata anche perché
per strozzarlo avrei dovuto avercelo fisicamente di fronte.
Mi alzai e mi diressi verso il frigo, sperando di trovarci dentro qualche bibita gasata. Che desolazione: solo una lattina aperta di sprite, risalente a qualche giorno prima e una bottiglietta d’acqua naturale. Richiusi il frigo e tornai sul divano. Mi decisi ad afferrare il cellulare: pigiai il tasto centrale e la cartella messaggi ricevuti si aprì. Fu un grande sollievo leggere che il mittente non era Paolo, sentii il battito tornare ad essere regolare:
Mi alzai e mi diressi verso il frigo, sperando di trovarci dentro qualche bibita gasata. Che desolazione: solo una lattina aperta di sprite, risalente a qualche giorno prima e una bottiglietta d’acqua naturale. Richiusi il frigo e tornai sul divano. Mi decisi ad afferrare il cellulare: pigiai il tasto centrale e la cartella messaggi ricevuti si aprì. Fu un grande sollievo leggere che il mittente non era Paolo, sentii il battito tornare ad essere regolare:
“Stasera rimango a cena da Enrico, con me
c’è anche Sveva. Goditi la serata! TVB, le tue sisters”.
Alle 19.55 ero pronta per la serata. Dopo
essermi provata ogni singolo indumento del mio guardaroba e dopo aver sfilato almeno una
cinquantina di volte davanti allo specchio del bagno, sfoggiando tutte le
combinazioni di colori e modelli possibili, optai per una gonna nera a pieghe,
un golf a collo alto, rigorosamente nero, cinturone di pelle marrone e stivali marroni con qualche
centimetro di tacco in modo tale da creare quella piacevole illusione di
sfiorare il metro e settantacinque di altezza.
Solitamente, quando si presentavano
occasioni speciali, c’era la mamma che estraeva dalla borsa di Furla, la sua
preferita, un sottile bustino nero contenente tre cose fondamentali: matita
nera, mascara e lucida labbra. Lei si divertiva a truccarmi e a me piaceva
essere truccata da lei. Diceva che i due colori che meglio risaltavano i miei
occhi erano il verde e il viola: quella sera scelsi il verde, la sfumatura
della speranza. Rapidi tocchi leggeri sulle mie palpebre. Mi guardai allo
specchio: accennai ad una possibile capigliatura con i capelli raccolti. Ma non
mi convinse, perciò li lasciai cadere sulle spalle.
Aprii il portone, guardai a destra e poi
a sinistra, ma non vidi nessuno: ero agitata, ero eccitata, ero impaurita. Le
mie gambe tremavano e le mie guance erano calde.
“Ho beccato nove semafori rossi, al
decimo, benché fosse verde, mi sono fermato e ho preso questa!”
Mi voltai: in mano aveva una splendida
margherita, me la porse.
“Per lei, signorina. E’ il fiore che meglio la rappresenta: è semplice e puro, ma allo stesso tempo elegante e raffinato!”
Per un attimo ebbi la tentazione di abbracciarlo
lì sul posto. Presi la margherita: “Grazie, Paolo, è il mio fiore preferito!” Lui ricambiò con un sorriso.
“Andiamo?”
“Dove siamo diretti?”
“All’Osteria del tempo perduto!”
Lo guardai diffidente: “Vuoi davvero
portarmi in un’osteria?”
“E’ tutto ciò che un povero ragazzo
squattrinato si può permettere!”
Gli sorrisi: “Devi sapere che ho un
debole per i poveri ragazzi squattrinati!”
Notte opaca: chiaro di luna offuscato da qualche nuvola passeggera. Solo poche stelle si contendevano lo spazio infinito sopra le nostre teste.
Credevo di conoscere Milano, credevo di
conoscere i segreti che gelosamente custodiva nel buio della notte. Invece mi
sbagliavo. Percorremmo a bordo della sua vecchia Renault grigia, strade
desolate, a me nuove, in cui si alternavano vecchi magazzini ad altrettanto
vecchi edifici cadenti. Ora
intuivo perché l’osteria si chiamasse in quel modo: ci trovavamo in un luogo
dimenticato anche dal tempo.
“Sei sicuro di non aver sbagliato
strada?”
“Tranquilla, pochi minuti e siamo
arrivati!”
Svoltò a sinistra e poi di nuovo a
destra: poco dopo rallentò e s’infilò in un parcheggio. Contai le altre
macchine: sette.
Percorremmo qualche metro a piedi finchè
non ci trovammo di fronte ad una porta di legno, che recava la scritta:
“Osteria del tempo perduto”. Aveva un’aria piuttosto trasandata e
istintivamente afferrai la mano di Paolo. Quando se la sentì toccare si voltò
verso di me, mi sorrise e me la strinse, come per trasmettermi un po’ della sua
sicurezza.
La porta venne aperta da un uomo di
notevoli dimensioni,con folti baffi neri e un cappello da chef in testa.
“Ciao Paolo! Il Vecchio mi aveva detto
che stasera saresti venuto, ma non credevo in compagnia di una così bella
fanciulla. Forse non è un po’ troppo per te?” domandò dandogli una pacca sulla
spalla; io mostrai un sorriso imbarazzato;
“Già, mi sa che hai ragione!” rispose, guardandomi con
tenerezza;
Si fece da parte per permetterci di
entrare, salimmo una rampa di scale cigolanti e ci trovammo in una stanza
delimitata da spessi muri di pietra e illuminata da una luce soffusa. Il lato
destro era occupato dal lungo bancone del bar e il resto della sala era
arredato con vecchi tavoli in legno coperti da lunghe tovaglie a quadretti
bianchi e rossi. Quando entrammo sentii gli occhi degli altri ospiti puntati su
di noi: occhi diffidenti, occhi scettici, occhi critici.
Alle spalle di Paolo comparve un uomo
decisamente più anziano di quello che ci aveva accolto, ma con un volto e un
espressione più rassicuranti.
“Che bello vederti! Ha ragione tuo nonno:
sei diventato proprio un ometto!” Paolo si voltò verso l’interlocutore;
“Ciao zio Nanni!!”
“Devi sapere – l’uomo lasciò in sospeso
la frase e si rivolse verso di me, probabilmente aspettandosi che pronunciassi
il mio nome:
“Mi chiamo Matilde!” dissi;
“Devi sapere, Matilde, che questo
giovanotto si è sempre rifiutato di cercarsi una fidanzata. Diceva che l’amore
non faceva per lui, che preferiva trascorrere il suo tempo libero maneggiando
arnesi da meccanico o, ancor meglio, abbandonandosi ai piaceri della montagna.
Finalmente ha deciso di ritornare sui suoi passi!”
“Mi dispiace deluderla, signore, ma siamo
solo amici!” spiegai;
“Per ora…” disse, facendomi l’occhiolino;
“Sei pronta per la sorpresa?” mi domandò
Paolo;
“Quale sorpresa?”domandai incuriosita;
“Seguimi!”
Lo seguii. Salimmo una seconda rampa di
scale e ci trovammo di fronte a due porte, aprì quella di sinistra.
“Dove mi stai portando?”
Si voltò verso di me, si avvicinò e con
le sue mani coprì i miei occhi:
“Non vale sbirciare!”
Mi feci condurre senza mostrare alcuna
esitazione. Mi fidavo di lui. Dal forte sbalzo di temperatura capii che non ci
trovavamo più al chiuso:
“Attenzione al gradino! Ci siamo quasi…”
Le sue mani sapevano di vaniglia. Ricordo
bene quanto fosse intenso quel profumo.
“Sei pronta?”
“Sono pronta!”
Tolse le mani: ero sul tetto del mondo,
avevo la città ai miei piedi. Si estendeva in uno spazio di luci e ombre e là
infondo si ergeva il Duomo con la sua punta d’oro che solleticava il cielo.
L’immagine era perfetta e io la osservavo
con occhi pieni di stupore e meraviglia: le sue mani, posate sulle mie spalle
le sentii scendere fino ai fianchi, quindi le sue braccia strinsero il mio
corpo al suo. Come se volessero strapparmi da me stessa.
Prendemmo posto al tavolo che ci era
stato riservato e ci sedemmo l’uno di fronte all’altra.
“Mi piacciono i locali come questo:
ricorda un po’ lo stile country americano!” dissi, guardandomi intorno;
“Deduco allora che tu abbia oltrepassato
il confine italiano per raggiungere la terra straniera!”
“Ottima deduzione: ho potuto viaggiare
molto grazie ai miei genitori che erano cittadini del mondo!”
“E dimmi: il posto che più ti è
piaciuto?”
“Strano: a questo punto di solito tutti
mi chiedono cosa sia loro successo!” esclamai con stupore, abbassando lo
sguardo;
“Ma io non sono tutti. E poi la storia
insegna: la mia stupida arroganza ti ha già fatto sufficientemente male e non
voglio fartene ancora, quindi quando avrai voglia me ne parlerai tu e io ti
ascolterò!”
Alzai lo sguardo e gli mostrai un sorriso
di gratitudine:
“Mi hai chiesto il posto che più mi è
piaciuto…sinceramente non saprei..la mia indecisione oscilla tra il Safari in
Sud Africa, il viaggio on the road negli Stati Uniti, Cuba, il trekking nel Tibet…”
“Ok ok, ho capito! Volevi farmi morire di
invidia? Ci sei riuscita!”
“Che soddisfazione! A te non piace
viaggiare?”
“Fosse per me partirei in quest’istante!
Purtroppo ancora non me lo posso permettere. Ma sono convinto che arriverà il
giorno in cui farò il giro del mondo, devo solo avere pazienza. Comunque, non è
che non abbia visto proprio nulla: sono andato a fare trekking in Perù e in
Marocco grazie a delle spedizioni organizzate da un caro amico di mio padre.”
“Decisamente un buon inizio!”
“Mai quanto il tuo! Ci sarà però un posto
nel mondo in cui non sei mai stata, nemmeno di passaggio, e che vorresti
vedere!?”
“L’Argentina mi ha sempre affascinato,
forse perché la vedo così lontana e irraggiungibile!”
“Perfetto!” esclamò, poi vidi che
cominciò a contare con le dita:
“Facendo un breve calcolo: sommando i
cinque anni di università a qualche anno di lavoro, direi che il 30 Luglio del
2010 possiamo considerarci già a Buenos Aires. Avremo denaro a sufficienza per pagarci il volo aereo
e là troveremo qualche lavoretto che ci permetterà di vedere tutta l’Argentina.
Calpesteremo ogni angolo di terra nascosto al comune occhio umano, che ne
pensi?”
Lo disse con un entusiasmo e una
convinzione tale da rendere le sue parole reali come la prima neve.
“E’ una promessa?”
“Troverai il biglietto dell’aereo nella
tua casella postale esattamente una settimana prima della partenza: ovunque
sarai!”
“Disturbo o siete pronti per ordinare?”
domandò una ragazza, appoggiando sul tavolo una piccola caraffa di vino rosso;
“Mi dicono che offre la casa!” aggiunse,
guardando zio Tano, che ci osservava con attenzione e decisamente poca
discrezione da dietro il bancone;
“Grazie! Non vengo da un po’, ma spero
che il risotto alla trevisana e l’arrosto con le castagne siano ancora la
specialità di questo posto!”
“Non ti preoccupare, i piatti forti
resistono!” lo rassicurò;
“Che ne dici Matilde?”
“Dico che entrambi i piatti mi attirano
moltissimo!”
“Perfetto, allora per entrambi risotto e
arrosto!”
La ragazza prese l’ordine con rapidità,
staccò il foglietto dal block notes e prima di voltarsi inserì quest’ultimo nel
tascone del grembiule nero che indossava.
In attesa delle nostre ordinazioni ci
rimettemmo a chiacchierare:
“Parlami di te, in fondo non so molto!”
“Non è vero!” obiettò, “Sai quanti anni
ho, sai che gioco a calcio, sai che ho un padre arruolato nell’esercito, e sai
anche che lavoro in un’ officina!”
In effetti sapevo molte più cose di
quelle che credevo, ma non mi bastavano, perciò cominciai a fargli domande
sulla sua famiglia e sui suoi studi. Mi disse che era figlio unico e che il
rapporto con sua madre era sempre stato difficile: da come me ne parlò non mi
diede l’idea che la cosa gli recasse sofferenza o che comunque lo preoccupasse.
Probabilmente per lui era normale che tra madre e figlio non ci fosse
complicità e condivisione o forse per un pò lo aveva sperato e col tempo questa
speranza era sfumata lentamente.
Era al primo anno di ingegneria
meccanica. Sinceramente non capivo che cosa ci potesse trovare di tanto
allettante in una facoltà di formule e motori, poi mi ricordai della sua
passione per l’officina e la mia mente si illuminò.
Nel frattempo arrivarono le portate:
prima il risotto e poi l’arrosto, ma non smettemmo mai di parlare. Questa volta
fu lui a farmi domande: mi chiese delle mie sorelle e mi venne naturale parlare
dei miei genitori, facendo attenzione ai verbi, perché la parte di me che
ancora non aveva cominciato ad elaborare il lutto, spesso, senza pensarci
troppo, usava ancora il tempo presente.
Dopo cena mi riaccompagnò a casa. Il
giorno seguente mi sarei dovuta alzare presto per andare a scuola e quindi non
avrei potuto fare tardi.
Scesi dall’auto e mi avvicinai al portone
in ferro battuto, intarsiato di
figure strane, senza senso. Paolo era accanto a me:
“Sono stata proprio bene!” ammisi,
tenendo stretta la margherita che mi aveva regalato.
“Anche io… Credi che ci rivedremo?”
“Tu sai dove trovarmi e hai anche il mio
numero di telefono!”
Mi diede un bacio sulla guancia.
Esattamente a metà strada tra il naso e l’orecchio. Avvertii il calore delle
sue labbra morbide. In quel momento chiusi gli occhi, come per assaporare
meglio quella sensazione di piacere.
Poi si allontanò e io mi voltai per
inserire le chiavi nella toppa. Le guardai, non ero sicura di voler entrare:
presto mi accorsi di non essere
sola. I suoi respiri lunghi e profondi mi solleticarono il collo. Sorrisi e mi
girai verso di lui.
“Mi è sembrato un bacio incompleto!” mi
disse, accarezzandomi il viso. Le sue mani affondarono nei miei capelli, poi le
sentii scendere lungo il corpo, trasmettendomi una strana vibrazione, e
fermarsi sui fianchi. Mi strinse a
lui: posò le sue labbra sulle mie, le sentii bruciare. Intrecciai le dita ai
suoi capelli, stringendolo a me.
Aprii gli occhi, lui sfoderò un sorriso:
“Ecco” disse, palesemente soddiffatto del
bacio: “Direi che è stato perfettamente completato!”
Mi tese la mano, l’afferrai,
avevo più bisogno di sostegno di quanto credessi. Non avevo ancora ritrovato
l’equilibrio.
Una volta a casa, mi infilai
la camicia da notte e andai da Benedetta: sapevo che ancora non stava dormendo.
Le diedi un bacio sulla guancia, lei si voltò verso di me e mi fece spazio.
“Vieni sotto alle coperte che
sei mezza nuda!”
In effetti avevo la pelle
d’oca, ma non per il freddo. Era l’eccitazione di quella sera che continuava a
provocarmi brividi e palpitazioni.
“Oggi Sveva mi ha chiamato
mamma!” mi sussurrò, mettendosi sul fianco e aspettando che mi pronunciassi a
riguardo;
“Pensa quando si accorgerà lei
stessa che tu non sei sua madre?”
“Si sa che la verità spesso fa
male, ma spero arrivi presto quel momento perché quando oggi mi ha chiamato
“mamma”, ho sentito una fitta al cuore che non auguro nemmeno al peggior
nemico!”
“Ti credo, Benedetta!”
Mi rigirai a lungo nel letto,
ripensando alla serata appena trascorsa. Ci misi un po’ a prendere sonno, prima
di chiudere gli occhi rivissi nella mente per l’ultima volta il bacio di Paolo. Sentii il battito
accelerare.
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