CAPITOLO 9 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri
Blaise Pascal disse: "Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce."



Ancora 14400 secondi di attesa. Dalle quattro del pomeriggio in avanti cominciai a guardare l’orologio ogni dieci minuti: le otto mi sembravano così lontane. Picchiettai più volte sul quadrante per paura che per qualche strano motivo le lancette si fossero fermate. Ma ogni volta rimasi delusa: non era l’orologio a non funzionare, erano le ore che trascorrevano con interminabile lentezza.
Accesi la televisione: Rai 1 e Canale 5 erano oscurati e gli altri canali non trasmettevano nulla di interessante o che comunque potesse catturare la mia attenzione. Niente da fare: nemmeno la “distrazione per eccellenza” era riuscita a non farmi pensare alla serata che ancora doveva cominciare, a lui, a noi.
Avrei potuto chiamare Irene, sicuramente si sarebbe precipitata a casa mia in un batter d’occhio, ma questo avrebbe voluto dire raccontarle cos’era successo con Filippo e cosa significava per me Paolo. Il fatto è che non ero certa di saperlo nemmeno io e come avrei potuto spiegare ad un terzo una cosa che a me, in prima persona, era difficile comprendere?  Abbandonai l’idea di telefonarle.
Restai immersa nei miei pensieri fino a quando sentii vibrare il cellulare: un messaggio ricevuto.
Non volevo leggerlo: se fosse stato Paolo che mi diceva che del nostro appuntamento non se ne sarebbe fatto più niente?
Lo lasciai cadere sul divano: di certo una cosa del genere non avrebbe richiesto una risposta immediata anche perché per strozzarlo avrei dovuto avercelo fisicamente di fronte. 


Mi alzai e mi diressi verso il frigo, sperando di trovarci dentro qualche bibita gasata. Che desolazione: solo una lattina aperta di sprite, risalente a qualche giorno prima e una bottiglietta d’acqua naturale. Richiusi il frigo e tornai sul divano. Mi decisi ad afferrare il cellulare: pigiai il tasto centrale e la cartella messaggi ricevuti si aprì. Fu un grande sollievo leggere che il mittente non era Paolo, sentii il battito tornare ad essere regolare:
“Stasera rimango a cena da Enrico, con me c’è anche Sveva. Goditi la serata! TVB, le tue sisters”.
Alle 19.55 ero pronta per la serata. Dopo essermi provata ogni singolo indumento del mio guardaroba e  dopo aver sfilato almeno una cinquantina di volte davanti allo specchio del bagno, sfoggiando tutte le combinazioni di colori e modelli possibili, optai per una gonna nera a pieghe, un golf a collo alto, rigorosamente nero, cinturone di pelle marrone  e stivali marroni con qualche centimetro di tacco in modo tale da creare quella piacevole illusione di sfiorare il metro e settantacinque di altezza.
Solitamente, quando si presentavano occasioni speciali, c’era la mamma che estraeva dalla borsa di Furla, la sua preferita, un sottile bustino nero contenente tre cose fondamentali: matita nera, mascara e lucida labbra. Lei si divertiva a truccarmi e a me piaceva essere truccata da lei. Diceva che i due colori che meglio risaltavano i miei occhi erano il verde e il viola: quella sera scelsi il verde, la sfumatura della speranza. Rapidi tocchi leggeri sulle mie palpebre. Mi guardai allo specchio: accennai ad una possibile capigliatura con i capelli raccolti. Ma non mi convinse, perciò li lasciai cadere sulle spalle.
Aprii il portone, guardai a destra e poi a sinistra, ma non vidi nessuno: ero agitata, ero eccitata, ero impaurita. Le mie gambe tremavano e le mie guance erano calde.
“Ho beccato nove semafori rossi, al decimo, benché fosse verde, mi sono fermato e ho preso questa!”
Mi voltai: in mano aveva una splendida margherita, me la porse.

“Per lei, signorina. E’ il fiore che meglio la rappresenta: è semplice e puro, ma allo stesso tempo elegante e raffinato!”
Per un attimo ebbi la tentazione di abbracciarlo lì sul posto. Presi la margherita: “Grazie, Paolo, è il mio fiore preferito!” Lui ricambiò con un sorriso.
“Andiamo?”
“Dove siamo diretti?”
“All’Osteria del tempo perduto!”
Lo guardai diffidente: “Vuoi davvero portarmi in un’osteria?”
“E’ tutto ciò che un povero ragazzo squattrinato si può permettere!”
Gli sorrisi: “Devi sapere che ho un debole per i poveri ragazzi squattrinati!”

Notte opaca: chiaro di luna offuscato da qualche nuvola passeggera. Solo poche stelle si contendevano lo spazio infinito sopra le nostre teste.
Credevo di conoscere Milano, credevo di conoscere i segreti che gelosamente custodiva nel buio della notte. Invece mi sbagliavo. Percorremmo a bordo della sua vecchia Renault grigia, strade desolate, a me nuove, in cui si alternavano vecchi magazzini ad altrettanto vecchi edifici cadenti.  Ora intuivo perché l’osteria si chiamasse in quel modo: ci trovavamo in un luogo dimenticato anche dal tempo.
“Sei sicuro di non aver sbagliato strada?”
“Tranquilla, pochi minuti e siamo arrivati!”
Svoltò a sinistra e poi di nuovo a destra: poco dopo rallentò e s’infilò in un parcheggio. Contai le altre macchine: sette.
Percorremmo qualche metro a piedi finchè non ci trovammo di fronte ad una porta di legno, che recava la scritta: “Osteria del tempo perduto”. Aveva un’aria piuttosto trasandata e istintivamente afferrai la mano di Paolo. Quando se la sentì toccare si voltò verso di me, mi sorrise e me la strinse, come per trasmettermi un po’ della sua sicurezza.
La porta venne aperta da un uomo di notevoli dimensioni,con folti baffi neri e un cappello da chef in testa.
“Ciao Paolo! Il Vecchio mi aveva detto che stasera saresti venuto, ma non credevo in compagnia di una così bella fanciulla. Forse non è un po’ troppo per te?” domandò dandogli una pacca sulla spalla; io mostrai un sorriso imbarazzato;
“Già, mi sa che hai  ragione!” rispose, guardandomi con tenerezza;
Si fece da parte per permetterci di entrare, salimmo una rampa di scale cigolanti e ci trovammo in una stanza delimitata da spessi muri di pietra e illuminata da una luce soffusa. Il lato destro era occupato dal lungo bancone del bar e il resto della sala era arredato con vecchi tavoli in legno coperti da lunghe tovaglie a quadretti bianchi e rossi. Quando entrammo sentii gli occhi degli altri ospiti puntati su di noi: occhi diffidenti, occhi scettici, occhi critici.
Alle spalle di Paolo comparve un uomo decisamente più anziano di quello che ci aveva accolto, ma con un volto e un espressione più rassicuranti.
“Che bello vederti! Ha ragione tuo nonno: sei diventato proprio un ometto!” Paolo si voltò verso l’interlocutore;
“Ciao zio Nanni!!”
“Devi sapere – l’uomo lasciò in sospeso la frase e si rivolse verso di me, probabilmente aspettandosi che pronunciassi il mio nome:
“Mi chiamo Matilde!” dissi;
“Devi sapere, Matilde, che questo giovanotto si è sempre rifiutato di cercarsi una fidanzata. Diceva che l’amore non faceva per lui, che preferiva trascorrere il suo tempo libero maneggiando arnesi da meccanico o, ancor meglio, abbandonandosi ai piaceri della montagna. Finalmente ha deciso di ritornare sui suoi passi!”
“Mi dispiace deluderla, signore, ma siamo solo amici!” spiegai;
“Per ora…” disse, facendomi l’occhiolino;
“Sei pronta per la sorpresa?” mi domandò Paolo;
“Quale sorpresa?”domandai incuriosita;
“Seguimi!”
Lo seguii. Salimmo una seconda rampa di scale e ci trovammo di fronte a due porte, aprì quella di sinistra.
“Dove mi stai portando?”
Si voltò verso di me, si avvicinò e con le sue mani coprì i miei occhi:
“Non vale sbirciare!”
Mi feci condurre senza mostrare alcuna esitazione. Mi fidavo di lui. Dal forte sbalzo di temperatura capii che non ci trovavamo più al chiuso:
“Attenzione al gradino! Ci siamo quasi…”
Le sue mani sapevano di vaniglia. Ricordo bene quanto fosse intenso quel profumo.
“Sei pronta?”
“Sono pronta!”
Tolse le mani: ero sul tetto del mondo, avevo la città ai miei piedi. Si estendeva in uno spazio di luci e ombre e là infondo si ergeva il Duomo con la sua punta d’oro che solleticava il cielo.
L’immagine era perfetta e io la osservavo con occhi pieni di stupore e meraviglia: le sue mani, posate sulle mie spalle le sentii scendere fino ai fianchi, quindi le sue braccia strinsero il mio corpo al suo. Come se volessero strapparmi da me stessa.
Prendemmo posto al tavolo che ci era stato riservato e ci sedemmo l’uno di fronte all’altra.
“Mi piacciono i locali come questo: ricorda un po’ lo stile country americano!” dissi, guardandomi intorno;
“Deduco allora che tu abbia oltrepassato il confine italiano per raggiungere la terra straniera!”
“Ottima deduzione: ho potuto viaggiare molto grazie ai miei genitori che erano cittadini del mondo!”
“E dimmi: il posto che più ti è piaciuto?”
“Strano: a questo punto di solito tutti mi chiedono cosa sia loro successo!” esclamai con stupore, abbassando lo sguardo;
“Ma io non sono tutti. E poi la storia insegna: la mia stupida arroganza ti ha già fatto sufficientemente male e non voglio fartene ancora, quindi quando avrai voglia me ne parlerai tu e io ti ascolterò!”
Alzai lo sguardo e gli mostrai un sorriso di gratitudine:
“Mi hai chiesto il posto che più mi è piaciuto…sinceramente non saprei..la mia indecisione oscilla tra il Safari in Sud Africa, il viaggio on the road negli Stati Uniti,  Cuba, il trekking nel Tibet…”
“Ok ok, ho capito! Volevi farmi morire di invidia? Ci sei riuscita!”
“Che soddisfazione! A te non piace viaggiare?”
“Fosse per me partirei in quest’istante! Purtroppo ancora non me lo posso permettere. Ma sono convinto che arriverà il giorno in cui farò il giro del mondo, devo solo avere pazienza. Comunque, non è che non abbia visto proprio nulla: sono andato a fare trekking in Perù e in Marocco grazie a delle spedizioni organizzate da un caro amico di mio padre.”
“Decisamente un buon inizio!”
“Mai quanto il tuo! Ci sarà però un posto nel mondo in cui non sei mai stata, nemmeno di passaggio, e che vorresti vedere!?”
“L’Argentina mi ha sempre affascinato, forse perché la vedo così lontana e irraggiungibile!”
“Perfetto!” esclamò, poi vidi che cominciò a contare con le dita:
“Facendo un breve calcolo: sommando i cinque anni di università a qualche anno di lavoro, direi che il 30 Luglio del 2010 possiamo considerarci già a Buenos Aires. Avremo denaro  a sufficienza per pagarci il volo aereo e là troveremo qualche lavoretto che ci permetterà di vedere tutta l’Argentina. Calpesteremo ogni angolo di terra nascosto al comune occhio umano, che ne pensi?”
Lo disse con un entusiasmo e una convinzione tale da rendere le sue parole reali come la prima neve.
“E’ una promessa?”
“Troverai il biglietto dell’aereo nella tua casella postale esattamente una settimana prima della partenza: ovunque sarai!”
“Disturbo o siete pronti per ordinare?” domandò una ragazza, appoggiando sul tavolo una piccola caraffa di vino rosso;
“Mi dicono che offre la casa!” aggiunse, guardando zio Tano, che ci osservava con attenzione e decisamente poca discrezione da dietro il bancone;
“Grazie! Non vengo da un po’, ma spero che il risotto alla trevisana e l’arrosto con le castagne siano ancora la specialità di questo posto!”
“Non ti preoccupare, i piatti forti resistono!” lo rassicurò;
“Che ne dici Matilde?”
“Dico che entrambi i piatti mi attirano moltissimo!”
“Perfetto, allora per entrambi risotto e arrosto!”
La ragazza prese l’ordine con rapidità, staccò il foglietto dal block notes e prima di voltarsi inserì quest’ultimo nel tascone del grembiule nero che indossava.
In attesa delle nostre ordinazioni ci rimettemmo a chiacchierare:
“Parlami di te, in fondo non so molto!”
“Non è vero!” obiettò, “Sai quanti anni ho, sai che gioco a calcio, sai che ho un padre arruolato nell’esercito, e sai anche che lavoro in un’ officina!”
In effetti sapevo molte più cose di quelle che credevo, ma non mi bastavano, perciò cominciai a fargli domande sulla sua famiglia e sui suoi studi. Mi disse che era figlio unico e che il rapporto con sua madre era sempre stato difficile: da come me ne parlò non mi diede l’idea che la cosa gli recasse sofferenza o che comunque lo preoccupasse. Probabilmente per lui era normale che tra madre e figlio non ci fosse complicità e condivisione o forse per un pò lo aveva sperato e col tempo questa speranza era sfumata lentamente.
Era al primo anno di ingegneria meccanica. Sinceramente non capivo che cosa ci potesse trovare di tanto allettante in una facoltà di formule e motori, poi mi ricordai della sua passione per l’officina e la mia mente si illuminò.
Nel frattempo arrivarono le portate: prima il risotto e poi l’arrosto, ma non smettemmo mai di parlare. Questa volta fu lui a farmi domande: mi chiese delle mie sorelle e mi venne naturale parlare dei miei genitori, facendo attenzione ai verbi, perché la parte di me che ancora non aveva cominciato ad elaborare il lutto, spesso, senza pensarci troppo, usava ancora il tempo presente.
Dopo cena mi riaccompagnò a casa. Il giorno seguente mi sarei dovuta alzare presto per andare a scuola e quindi non avrei potuto fare tardi.
Scesi dall’auto e mi avvicinai al portone in ferro battuto,  intarsiato di figure strane, senza senso. Paolo era accanto a me:
“Sono stata proprio bene!” ammisi, tenendo stretta la margherita che mi aveva regalato.
“Anche io… Credi che ci rivedremo?”
“Tu sai dove trovarmi e hai anche il mio numero di telefono!”
Mi diede un bacio sulla guancia. Esattamente a metà strada tra il naso e l’orecchio. Avvertii il calore delle sue labbra morbide. In quel momento chiusi gli occhi, come per assaporare meglio quella sensazione di piacere.
Poi si allontanò e io mi voltai per inserire le chiavi nella toppa. Le guardai, non ero sicura di voler entrare: presto  mi accorsi di non essere sola. I suoi respiri lunghi e profondi mi solleticarono il collo. Sorrisi e mi girai verso di lui.
“Mi è sembrato un bacio incompleto!” mi disse, accarezzandomi il viso. Le sue mani affondarono nei miei capelli, poi le sentii scendere lungo il corpo, trasmettendomi una strana vibrazione, e fermarsi sui fianchi.  Mi strinse a lui: posò le sue labbra sulle mie, le sentii bruciare. Intrecciai le dita ai suoi capelli, stringendolo a me.
Aprii gli occhi, lui sfoderò un sorriso:
“Ecco” disse, palesemente soddiffatto del bacio: “Direi che è stato perfettamente completato!”
Mi tese la mano, l’afferrai, avevo più bisogno di sostegno di quanto credessi. Non avevo ancora ritrovato l’equilibrio.

Una volta a casa, mi infilai la camicia da notte e andai da Benedetta: sapevo che ancora non stava dormendo. Le diedi un bacio sulla guancia, lei si voltò verso di me e mi fece spazio.
“Vieni sotto alle coperte che sei mezza nuda!”
In effetti avevo la pelle d’oca, ma non per il freddo. Era l’eccitazione di quella sera che continuava a provocarmi brividi e palpitazioni.
“Oggi Sveva mi ha chiamato mamma!” mi sussurrò, mettendosi sul fianco e aspettando che mi pronunciassi a riguardo;
“Pensa quando si accorgerà lei stessa che tu non sei sua madre?”
“Si sa che la verità spesso fa male, ma spero arrivi presto quel momento perché quando oggi mi ha chiamato “mamma”, ho sentito una fitta al cuore che non auguro nemmeno al peggior nemico!”
“Ti credo, Benedetta!”

Mi rigirai a lungo nel letto, ripensando alla serata appena trascorsa. Ci misi un po’ a prendere sonno, prima di chiudere gli occhi rivissi nella mente per l’ultima volta  il bacio di Paolo. Sentii il battito accelerare.


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