Foto di Beatrice Barbieri |
Quasi mi
mancò il fiato. Accesi la luce: Ero tutta sudata. Non riconoscevo nulla di ciò
che mi stava intorno. Impiegai qualche minuto prima di realizzare che mi
trovavo nella nuova casa: scoppiai in lacrime. Mi mancava la vecchia casa, mi
mancava il suo odore, le sue stanze, i suoi muri troppo bianchi, il suo disordine,
le sue imperfezioni: cominciai a dare pugni al cuscino. Poi le mie mani
coprirono il mio viso, la mia bocca: volevo piangere in silenzio.
Facendo attenzione a non fare
troppo rumore, uscii dalla stanza e andai in bagno, che separava la camera dove
dormivamo io e Sveva, dal salotto, nel cui divano letto dormiva Benedetta.
Mi sciacquai la faccia con
l’acqua fredda, poi affondai il viso nell’asciugamano. Quando lo rimisi al suo
posto vidi la mia immagine riflessa nello specchio. I miei occhi, a volte
troppo severi, mi scrutavano, come per accertarsi che fossi proprio io, che
quel volto fosse proprio il mio e allo stesso tempo per capire quanto ci fosse
di diverso e se fossi stata in grado di affrontare tutto quello che sarebbe
venuto.
Tornai a letto e pensai a
quando papà mi raccontava la storia dei Pisani, uomini piccoli piccoli, che
grazie alla magia, creavano luoghi fantastici, che noi umani, potevamo visitare
solo attraverso i sogni.
“Com’è stata la prima notte
nella nostra nuova umile dimora?” domandò Benedetta, indaffarata in cucina (si
fa per dire! Era un angolo cottura, semplice ed essenziale, nel vero senso
della parola) tra un biberon da scaldare e una moka da tener d’occhio.
“Non credo ci siano parole per
descriverla, oserei dire: memorabile!”
Avevo dovuto abbandonare il
mio letto a una piazza e mezza per un’asse di legno, in cui a malapena ci stava
una persona di media altezza.
“Credo che quel divano letto
non abbia una molla, dico una, che non sia saltata! Dire che sia scomodo è un
leggero eufemismo!”
Mi lasciai cadere proprio su
quel divano. Mossa sbagliatissima: sentii uno strano rumore provenire da sotto
il mio sedere:
“Matilde, non è che per caso,
sei riuscita a rompere l’unica molla che teneva in piedi sto benedetto
cimelio?”
Pensai la stessa cosa.
“Infondo non è certo una molla che fa la differenza!”
Scoppiai a ridere. Era il
divano, era la casa, era la situazione paradossale.
Decisi di andare alla partita:
giocavano in casa. Benché fossi arrivata con un certo anticipo, l’intera tribuna
era già stata occupata, soprattutto da padri infervorati, ciascuno dei quali
intravedeva nel proprio figlio il futuro della nazionale, sì insomma l’elemento
necessario perché una squadra di serie A potesse vincere il campionato.
I giocatori erano già in campo
per il riscaldamento: vedevo i palloni sfrecciare da una parte all’altra e loro
correre a velocità impressionanti.
Filippo stava parlando con il
coach: aveva la fascetta da capitano e la grinta giusta per svolgere quel
ruolo.
Mi guardai intorno con
discrezione, non lo vedevo: in campo non c’era e la panchina era vuota.
“Stai forse cercando me?”
“Paolo!! Che spavento! Cosa ci
fai qui, perché non sei con gli altri?”
“Chissà perché, ma ero certo
che saresti venuta! Insomma non è da tutte ricevere un invito ufficiale dal
sottoscritto in persona. Solitamente è il mio agente ad occuparsene!”
“Ti conviene andare a giocare
prima che cominci a dirti quanto sei fastidioso!”
Si mise a ridere: “Vado,
vado!”
Mi diede un bacio sulla
guancia: sentii le sue labbra calde sfiorare la mia pelle.
“E questo cos’era?”
“Ti ho messo in imbarazzo,
vero? Lo si capisce da come ti mordicchi il labbro inferiore. Comunque era un
modo carino per dirti grazie e se vuoi ribadisco il concetto a voce: grazie per
il biglietto che mi hai fatto trovare nella manica della felpa!”
Si voltò verso i compagni e
s’inserì nella posizione di attaccante, secondo lo schema del coach.
“Sbaglio o i due attaccanti
del GS Vittoria stanno facendo di tutto per attirare la tua attenzione?”
“Irene, che sorpresa! Non
credevo di vederti qui!”
“Nell’altra squadra gioca il
ragazzo di mia sorella, mi ha chiesto se potevo accompagnarla e ora eccomi qui!
Adesso, però, devi dirmi tu che ci fai tra questi uligan impazziti!”
“Irene!!! – la guardai
stupita- che domande! Sono qui per Filippo!”
Abbassai lo sguardo.
“Se lo dici tu! A me sembra
che il numero 5 continui a guardare in questa direzione!”
“Sì, ma ci sono altre
persone!”
Irene si voltò per dare
un’occhiata: “Eh sì, in effetti hai ragione, secondo me guarda da questa parte
perché cerca la benedizione del prete, seduto proprio dietro di te!”
Le diedi una leggera pacca sul
braccio:
“E questo?” mi chiese
inarcando il sopracciglio;
“Un semplice buffetto
educativo!”
“Allora, mi dici o no chi è
quel ragazzo?”
“Non è nessuno, davvero! L’ho
conosciuto per caso, qualche settimana fa, ma da quel giorno non l’ho mai più
rivisto!”
Era la prima volta che mentivo
alla mia migliore amica: diciamo che non si trattò proprio di una bugia, ma
piuttosto di una mezza verità, o meglio, di una verità i cui dettagli avevo
volutamente tralasciato per raccontarglieli inseguito e in una circostanza
diversa.
“Ho capito! Ripetiamo tutte insieme: io Matilde Casale amo
Filippo, solo Filippo, esclusivamente Filippo!”
Mi misi a ridere: “Che stupida che sei! E’
proprio vero quanto tu sia unica nel tuo genere!”
Entrambe tornammo a
concentrarci sulla partita appena in tempo per assistere al goal di Paolo. La
folla andò in delirio, i compagni gli saltarono addosso, dandogli forti pacche
sulle spalle e sulla schiena: strano rito per festeggiare quello che doveva
essere un momento di gloria.
Tutti lo stavano strattonando
eccetto uno: Filippo. Lui se ne stava per conto suo. Paolo lo guardò: Filippo
distolse lo sguardo e richiamò i compagni.
La partita si concluse 1-0 per
il GS vittoria: Filippo si diresse verso Paolo. Gli diede un forte spintone:
“Devi lasciar stare la mia ragazza, lo capisci o no?”
Paolo cadde in avanti, ma si
rialzò immediatamente e gli si avvicinò: lo afferrò per la maglietta. Gli altri
sembravano non volersi mettere in mezzo. Li raggiunsi di corsa:
“Filippo cosa stai facendo? E
qualcuno vuole darmi una mano a separarli?”
Due ragazzi, piuttosto alti e
ben messi finalmente intervennero: Filippo continuò a guardarlo con aria minacciosa.
“Senti capitano hai un po’
stufato con queste scene di gelosia!” ribattè Paolo.
Filippo non ci vide più,
riuscì a svincolarsi e si scagliò
contro Paolo: entrambi caddero sulla bancarella su cui erano state sistemate le
borracce.
“Basta, per favore,
piantatela!!!” urlai.
Filippo si voltò verso di me,
vide il mio sguardo di supplica:
dietro di me comparve il coach:
“Filippo levati pure la
fascetta da capitano perché voi due passerete la prossima partita in panchina,
intesi? E per tutta la settimana non toccherete palla, ma farete solo un
estenuante esercizio fisico!”
“Ma…!”
“Non voglio sentire “ma”! e
ora andate a cambiarvi!”
Paolo mi passò accanto, sentii
il suo braccio sfiorare il mio: raccolse da terra la sua borraccia e si avviò
verso gli spogliatoi.
Filippo, invece, rimase lì a
fissarmi in silenzio: “Vai anche tu a cambiarti!” lo esortai.
Per tutto il tragitto non ci
rivolgemmo la parola:
“Forse è il caso che tu non
rimanga a cena!”
Lui annuì senza emettere un
suono: “Filippo puoi anche dire qualcosa!”
Quel silenzio cominciava a
innervosirmi: si avvicinò, mi scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
mi baciò. Chiusi gli occhi: le nostre labbra complementari si toccarono con
timore.
Quando li riaprii vidi una
lacrima sul suo viso: era la prima volta che vedevo la sua guancia bagnata da
una piccola goccia salata. La fermai prima che potesse raggiungere il mento.
“Io ti amo!” mi disse con voce
sottile, come se non fosse del tutto sicuro che quello fosse il momento più
adatto per dirlo.
Non potei fare a meno di
stringerlo forte e sussurrargli nell’orecchio le stesse parole.
Inserii le chiavi nella toppa
del portone ed entrai: salii una rampa di scale. Lui era ancora lì, sembrava
non volersene andare o forse sperava che ripercorressi quei gradini per tornare
da lui, come spesso succedeva quando litigavamo. Questa volta, però, non
sarebbe successo. Lo guardai un’ ultima volta, poi continuai a salire le scale
e a pensare a Paolo.
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