CAPITOLO 6 - Lontano da chi?

Foto di Beatrice Barbieri
Eleanor Roosevelt said: "You must do the things you think you cannot do"


Quasi mi mancò il fiato. Accesi la luce: Ero tutta sudata. Non riconoscevo nulla di ciò che mi stava intorno. Impiegai qualche minuto prima di realizzare che mi trovavo nella nuova casa: scoppiai in lacrime. Mi mancava la vecchia casa, mi mancava il suo odore, le sue stanze, i suoi muri troppo bianchi, il suo disordine, le sue imperfezioni: cominciai a dare pugni al cuscino. Poi le mie mani coprirono il mio viso, la mia bocca: volevo piangere in silenzio.
Facendo attenzione a non fare troppo rumore, uscii dalla stanza e andai in bagno, che separava la camera dove dormivamo io e Sveva, dal salotto, nel cui divano letto dormiva Benedetta. 
Mi sciacquai la faccia con l’acqua fredda, poi affondai il viso nell’asciugamano. Quando lo rimisi al suo posto vidi la mia immagine riflessa nello specchio. I miei occhi, a volte troppo severi, mi scrutavano, come per accertarsi che fossi proprio io, che quel volto fosse proprio il mio e allo stesso tempo per capire quanto ci fosse di diverso e se fossi stata in grado di affrontare tutto quello che sarebbe venuto.
Tornai a letto e pensai a quando papà mi raccontava la storia dei Pisani, uomini piccoli piccoli, che grazie alla magia, creavano luoghi fantastici, che noi umani, potevamo visitare solo attraverso i sogni.

“Com’è stata la prima notte nella nostra nuova umile dimora?” domandò Benedetta, indaffarata in cucina (si fa per dire! Era un angolo cottura, semplice ed essenziale, nel vero senso della parola) tra un biberon da scaldare e una moka da tener d’occhio.
“Non credo ci siano parole per descriverla, oserei dire: memorabile!”
Avevo dovuto abbandonare il mio letto a una piazza e mezza per un’asse di legno, in cui a malapena ci stava una persona di media altezza.
“Credo che quel divano letto non abbia una molla, dico una, che non sia saltata! Dire che sia scomodo è un leggero eufemismo!”
Mi lasciai cadere proprio su quel divano. Mossa sbagliatissima: sentii uno strano rumore provenire da sotto il mio sedere:
“Matilde, non è che per caso, sei riuscita a rompere l’unica molla che teneva in piedi sto benedetto cimelio?” 
Pensai la stessa cosa. “Infondo non è certo una molla che fa la differenza!”
Scoppiai a ridere. Era il divano, era la casa, era la situazione paradossale.

Decisi di andare alla partita: giocavano in casa. Benché fossi arrivata con un certo anticipo, l’intera tribuna era già stata occupata, soprattutto da padri infervorati, ciascuno dei quali intravedeva nel proprio figlio il futuro della nazionale, sì insomma l’elemento necessario perché una squadra di serie A potesse vincere il campionato. 
I giocatori erano già in campo per il riscaldamento: vedevo i palloni sfrecciare da una parte all’altra e loro correre a velocità impressionanti.
Filippo stava parlando con il coach: aveva la fascetta da capitano e la grinta giusta per svolgere quel ruolo.
Mi guardai intorno con discrezione, non lo vedevo: in campo non c’era e la panchina era vuota. 
“Stai forse cercando me?”
“Paolo!! Che spavento! Cosa ci fai qui, perché non sei con gli altri?” 
“Chissà perché, ma ero certo che saresti venuta! Insomma non è da tutte ricevere un invito ufficiale dal sottoscritto in persona. Solitamente è il mio agente ad occuparsene!”
“Ti conviene andare a giocare prima che cominci a dirti quanto sei fastidioso!” 
 Si mise a ridere: “Vado, vado!”
Mi diede un bacio sulla guancia: sentii le sue labbra calde sfiorare la mia pelle. 
“E questo cos’era?”
“Ti ho messo in imbarazzo, vero? Lo si capisce da come ti mordicchi il labbro inferiore. Comunque era un modo carino per dirti grazie e se vuoi ribadisco il concetto a voce: grazie per il biglietto che mi hai fatto trovare nella manica della felpa!”  
Si voltò verso i compagni e s’inserì nella posizione di attaccante, secondo lo schema del coach. 

“Sbaglio o i due attaccanti del GS Vittoria stanno facendo di tutto per attirare la tua attenzione?” “Irene, che sorpresa! Non credevo di vederti qui!” 
“Nell’altra squadra gioca il ragazzo di mia sorella, mi ha chiesto se potevo accompagnarla e ora eccomi qui! Adesso, però, devi dirmi tu che ci fai tra questi uligan impazziti!”
“Irene!!! – la guardai stupita- che domande! Sono qui per Filippo!” 
Abbassai lo sguardo.
“Se lo dici tu! A me sembra che il numero 5 continui a guardare in questa direzione!” 
“Sì, ma ci sono altre persone!”
Irene si voltò per dare un’occhiata: “Eh sì, in effetti hai ragione, secondo me guarda da questa parte perché cerca la benedizione del prete, seduto proprio dietro di te!” 
Le diedi una leggera pacca sul braccio:
“E questo?” mi chiese inarcando il sopracciglio; 
“Un semplice buffetto educativo!”
“Allora, mi dici o no chi è quel ragazzo?”  
“Non è nessuno, davvero! L’ho conosciuto per caso, qualche settimana fa, ma da quel giorno non l’ho mai più rivisto!”

Era la prima volta che mentivo alla mia migliore amica: diciamo che non si trattò proprio di una bugia, ma piuttosto di una mezza verità, o meglio, di una verità i cui dettagli avevo volutamente tralasciato per raccontarglieli inseguito e in una circostanza diversa.

“Ho capito! Ripetiamo tutte insieme: io Matilde Casale amo Filippo, solo Filippo, esclusivamente Filippo!” 
Mi misi a ridere: “Che stupida che sei! E’ proprio vero quanto tu sia unica nel tuo genere!”
Entrambe tornammo a concentrarci sulla partita appena in tempo per assistere al goal di Paolo. La folla andò in delirio, i compagni gli saltarono addosso, dandogli forti pacche sulle spalle e sulla schiena: strano rito per festeggiare quello che doveva essere un momento di gloria. 
Tutti lo stavano strattonando eccetto uno: Filippo. Lui se ne stava per conto suo. Paolo lo guardò: Filippo distolse lo sguardo e richiamò i compagni.
La partita si concluse 1-0 per il GS vittoria: Filippo si diresse verso Paolo. Gli diede un forte spintone: “Devi lasciar stare la mia ragazza, lo capisci o no?” 
Paolo cadde in avanti, ma si rialzò immediatamente e gli si avvicinò: lo afferrò per la maglietta. Gli altri sembravano non volersi mettere in mezzo. Li raggiunsi di corsa:
“Filippo cosa stai facendo? E qualcuno vuole darmi una mano a separarli?” 
Due ragazzi, piuttosto alti e ben messi finalmente intervennero: Filippo continuò a guardarlo con aria minacciosa.
“Senti capitano hai un po’ stufato con queste scene di gelosia!” ribattè Paolo.
Filippo non ci vide più, riuscì  a svincolarsi e si scagliò contro Paolo: entrambi caddero sulla bancarella su cui erano state sistemate le borracce.
“Basta, per favore, piantatela!!!” urlai. 
Filippo si voltò verso di me, vide il mio sguardo di supplica:  dietro di me comparve il coach:
“Filippo levati pure la fascetta da capitano perché voi due passerete la prossima partita in panchina, intesi? E per tutta la settimana non toccherete palla, ma farete solo un estenuante esercizio fisico!”
“Ma…!” 
“Non voglio sentire “ma”! e ora andate a cambiarvi!”
Paolo mi passò accanto, sentii il suo braccio sfiorare il mio: raccolse da terra la sua borraccia e si avviò verso gli spogliatoi.  
Filippo, invece, rimase lì a fissarmi in silenzio: “Vai anche tu a cambiarti!” lo esortai.
Per tutto il tragitto non ci rivolgemmo la parola:
“Forse è il caso che tu non rimanga a cena!” 
Lui annuì senza emettere un suono: “Filippo puoi anche dire qualcosa!”
Quel silenzio cominciava a innervosirmi: si avvicinò, mi scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi baciò. Chiusi gli occhi: le nostre labbra complementari si toccarono con timore. 
Quando li riaprii vidi una lacrima sul suo viso: era la prima volta che vedevo la sua guancia bagnata da una piccola goccia salata. La fermai prima che potesse raggiungere il mento.
“Io ti amo!” mi disse con voce sottile, come se non fosse del tutto sicuro che quello fosse il momento più adatto per dirlo. 
Non potei fare a meno di stringerlo forte e sussurrargli nell’orecchio le stesse parole.
Inserii le chiavi nella toppa del portone ed entrai: salii una rampa di scale. Lui era ancora lì, sembrava non volersene andare o forse sperava che ripercorressi quei gradini per tornare da lui, come spesso succedeva quando litigavamo. Questa volta, però, non sarebbe successo. Lo guardai un’ ultima volta, poi continuai a salire le scale e a pensare a Paolo.








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