CAPITOLO 11 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri

Virginia Woolf disse: "Se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sè"


Il mattino seguente Benedetta mi accompagnò a scuola, arrivammo in anticipo perciò restò con me fino a che i cancelli non vennero aperti. Lei mi diede la mano, feci un respiro profondo e aprii la portiera:
“Ci vediamo stasera!”
Annuii senza dire una parola e mi allontanai. Non era passato nemmeno un giorno e già mi mancava da morire. Quel pugno di ricordi che tenevo serrato nella mia mano, se da un lato mi dava sollievo, dall’altro mi metteva malinconia. Il momento prima sorridevo rammentando i nostri giorni insieme e il momento successivo mi facevo trascinare da una spirale senza fine di ricordi quasi assillanti.
Ma per quanto ci pensassi, per quanto sentissi la sua mancanza, la vita va avanti, giusto? Il mondo non si ferma ad aspettare me, assicurandosi che stia bene, vero? Verissimo, perché sono una ragazza come tante, che la pensa come tante e che soffre come tante: rappresento l’ordinario, la pura e semplice realtà. E quindi si corre, si corre per paura di rimanere indietro, si corre per paura di essere sopraffatti da ciò che ci circonda, si corre su una sottile lastra di ghiaccio e quando si tratta di frenare, ecco che la caduta è inevitabile.
 
Le settimane passavano e il giorno del mio diciottesimo compleanno non tardò ad arrivare: quando mi svegliai trovai sul comodino una busta.
La aprii, conteneva una lettera scritta a mano. Mi bastò leggere la “C” di Cara per riconoscere l’inconfondibile grafia di mia madre. Respirai profondamente e mi abbandonai alla sua lettura:

23/11/1998
Cara Matilde,
spero con tutto il cuore che questo sia il primo di una lunghissima serie di giorni stupendi. Incredibile, la mia bambina è…maggiorenne!!!
Non sai quante volte abbia provato ad immaginarmi come saresti stata a 18 anni; quando eri piccina mi sembrava una data lontanissima e invece oggi ho la sensazione che il tempo sia volato troppo in fretta.
Potrei elencarti tutto ciò che di bello hai dentro e che vedo iniziare a sbocciare, potrei elencarti qualità, doni e imperfezioni che ti rendono unica nel tuo genere, ma oggi voglio solo dirti quanto sia incredibilmente orgogliosa e fiera di avere una ragazza come te e voglio che tu te lo ricorda ora e sempre.
Due raccomandazioni: non smettere mai di sognare, perché i sogni rendono vivo ogni giorno della nostra esistenza e non abbandonare per nessun motivo al mondo la forza di volontà e l’entusiasmo che ti appartengono.
Che altro dire, bambina mia: ti auguro una vita di gioie e soddisfazioni e se anche ci sarà qualche umano scivolone saprai sicuramente riprenderti alla grande.
Ti vogliamo bene,
mamma e papà

Nell’esatto istante in cui terminai di leggere la lettera, si sedette accanto a me Benedetta:
“Buon compleanno, sorellina!”
“Grazie! Dove l’hai trovata?”
“Nel cassetto del comodino di mamma quando abbiamo fatto il trasloco. Non mi sono permessa di leggerla, però mi piacerebbe molto poterlo fare!”
Gliela porsi senza esitazione. Mentre la leggeva, vidi trasparire dai suoi occhi un velo di commozione.
“E’ stupenda! … Anche io, però, ho una cosa per te…volevo dire anche noi abbiamo una cosa per te, vero Sveva?”
Benedetta si alzò e uscì dalla mia stanza, ricomparve qualche secondo dopo con un pacchetto enorme. Cominciai a scartare:
“No, non ci credo!!!!! La macchina da scrivere che avevamo visto insieme in quel negozio di antiquariato e di cui mi ero innamorata perdutamente! Ma, Benedetta costava un sacco! Sei pazza!?!”
“Forse! Però so che ci tenevi molto, sì insomma sappiamo tutte e due che hai un debole per le macchine da scrivere da quando per la prima volta hai visto la Signora in Giallo e quindi mi sembrava giusto che per i tuoi diciotto anni ne avessi una tutta tua!”
“Ti adoro! E’ il regalo più bello che potessi farmi…Grazie!” l’abbracciai fortissimo. 

Ricordo perfettamente il giorno in cui vidi in vetrina quella macchina da scrivere: era il giorno prima del compleanno di Benedetta, il 9 Aprile che dedicammo a fare del meritato shopping con la mamma: dall’alba al tramonto, mentre papà e Sveva ci raggiunsero solo nel tardo pomeriggio. A fine giornata, cariche come muli, ci fermammo in un minuscolo negozio di antiquariato, stracolmo di antichità di ogni genere e epoca perché la mamma si era impuntata di volermi cambiare scrivania a tutti i costi, quando io ero affezionatissima alla mia, moderna e per di più ikea e mentre lei cercava di trattare sul prezzo con il proprietario io mi lasciai catturare da una splendida macchina da scrivere nera adagiata su un comò di fine ottocento (così diceva il cartellino). Mi avvicinai, la scrutai per bene e la sfiorai, non volevo combinare danni.
“Dai andiamo, che questo signore è convinto che noi vogliamo spendere dieci mila euro per un semplice tavolo con quattro gambe un po’ lavorate!” Esclamò mia madre, afferrandomi la mano. In tutto questo Benedetta si era accorta quanto mi fosse piaciuto un oggetto che ero convinta non sarebbe mai stato mio. E invece, il giorno del mio diciottesimo compleanno era tra le mie, dico mie, mani.

La sera, benché non fossi completamente dello spirito giusto, andai a festeggiare con le mie quattro amiche storiche: Irene, Meggie, di un anno più piccola di me, amiche da sempre perchè mia madre e sua madre erano state compagne di liceo, Claudia e Marta, le mie compagne di banco all’elementari e compagne di avventure da ben dodici anni.
Mi trascinarono, su incitazione di mia sorella, in un locale sui Navigli. Qui ci raggiunsero alcuni miei compagni di classe, tra cui Filippo, Matteo, Gaia(la ragazza del Vanity Fair).
Davanti all’ingresso due tipi grossi, muniti di auricolari e con il 90 per cento del corpo coperto da tatuaggi ci fecero aspettare dieci minuti prima di farci entrare.
Mi guardai intorno: alla mia destra due ragazze troppo truccate, indossavano una gonna che a malapena copriva il sedere e portavano delle scarpe nere di vernice con un tacco di almeno 8 centimetri. Quanto avrebbero resistito? Io nemmeno cinque minuti: guardai i miei stivali marroni di camoscio: non un centimetro di tacco. Sorrisi: mi sarei sicuramente goduta di più la serata.
I buttafuori ci guardarono con aria minacciosa: “Voi!” Passammo avanti alle due ragazze, che infastidite borbottarono qualcosa e a una coppia che da quando eravamo arrivati, non aveva smesso un secondo di scambiarsi effusioni troppo appiccicose.
Ecco che fummo catapultati in un altro mondo, dove la musica a palla rimbombava nelle nostre casse toraciche.
Tutti ballavano come pazzi, anche i più calmi sarebbero stati trasportati dall’house, per non parlare dell’elettronica.
Ci buttammo nella mischia:
“Dai, Matilde, balliamo!” Matteo mi afferrò una mano e mi portò nel minuscolo spazio che doveva fingere da pista da ballo. Appoggiai una mano sulla sua spalla e cominciai a ballargli accanto.
I cubi, che delimitavano tutto il perimetro della pista, erano occupati da ragazze, molto probabilmente coetanee, ma che, conciate com’erano, dimostravano almeno 25 anni. I loro top striminziti cercavano di schiacciare un seno troppo grosso e i calzoncini aderenti che indossavano, lasciavano intravedere con facilità le loro forme.
Pochi minuti dopo comparve Filo con un bicchiere di vodka lemon in mano: “Per te!” me lo porse:
“Grazie!” cominciai a sorseggiarlo. Il sapore della vodka copriva decisamente quello della lemon soda: inizialmente feci una strana smorfia, poi mi sentii stranamente euforica e la ingurgitai come se fosse acqua, bastarono pochi minuti perché facesse effetto. La musica mi stava catturando, iniziai a muovere la testa e a ondeggiare con le spalle seguendo il ritmo, le mie amiche le avevo intorno: anche loro erano state prese da quel caos di bassi.
Mi spostai verso il bancone con Irene e con Meggie: ordinammo un chupito a testa. Dovevamo brindare:
“Alla diciottenne più speciale che ci sia!” esclamò Irene, alzando il bicchierino traboccante di rum; io e Meggie, la seguimmo. Poi tutto giù di un fiato, seguito dal succo di pera.
“Wooow! Mi sento strabene!” dissi, abbracciandole.
“Ci credo, sei stra-brilla….ma va bene così…i diciotto anni si vivono una volta sola!” disse Meggie, trascinandomi di nuovo in pista. Ero felice ed effettivamente un po’ ubriaca: mi stavo divertendo ed era quella la cosa importante. Se non fosse stato che voltandomi improvvisamente verso la consolle del dj, il mio sguardo incrociò quello di Filippo, sì proprio lui: il mio ex ragazzo che non sentivo e vedevo da più di un mese. Per un attimo mi sembrò che la musica si fosse stoppata e che in quel locale affollato ci fossimo solo io e lui. Lo vidi farsi largo e avvicinarsi: per colpa della lucidità alcolica, gli buttai istintivamente le braccia al collo. Lui non le tolse, anzi si strinse forte a me, poi mi sussurrò nell’orecchio:
“Auguri, pulce!”
Era l’unico che mi avesse mai chiamato così.
Gli diedi un bacio sulla guancia: “Grazie!”
“Non è che se ci vede Paolo, mi fa a fettine?”
“Non lo sai?? Comunque direi che è alquanto improbabile, dal momento che si trova a centinaia di chilometri di distanza!”
“Matilde, sbaglio o sei leggermente ubriaca?”
“Ti sbagli, eh sì, ti sbagli proprio!”
Si mise a ridere:
“Che c’è da ridere?!”
“Niente, niente!” Scosse la testa: “Perché è a centinaia di chilometri di distanza?”
“Si è arruolato nell’esercito… fantastico, no? Ho la capacità di perdere le persone a cui tengo veramente con una facilità straordinaria, non credi?”
“Matilde, non è colpa tua! – ci fu una pausa di silenzio- mi manchi…da morire!” mi confessò, prendendomi per mano; feci un passo indietro: “Mi piacerebbe vederti in uno dei prossimi giorni! …Semplicemente come amici!” Ci tenne a precisare, probabilmente per cercare di mettermi a mio agio.
“Come amici?”
“Sì proprio così!”
“E va bene…allora aspetto un tuo messaggio!”
Mi diede un bacio sulla guancia e poi sparì tra la folla in completo delirio, che non aveva smesso di scuotersi frenetica.
“Grandioso perché la probabilità di vedere Filippo in una discoteca è la stessa che io mi trovi di fronte a Scamarcio!” esclamò Irene, comparendomi alle spalle;
“Allora guardati bene intorno, perché a questo punto tutto è possibile!”

Arrivai a casa che erano le tre passate, avevo un sorriso stampato sul viso che avrei voluto conservare per tutti i giorni a venire.
Ero più che soddisfatta della serata: ero stata bene con me stessa, per non parlare della compagnia che oserei definire: perfetta e poi mi aveva fatto piacere rivedere Filippo dopo tanto tempo. Pensai a Paolo e a quanto sentissi ancora la sua mancanza: Ancora non era stato in grado di dirmi quando ci saremmo potuti rivedere. Molto probabilmente per Natale avrebbe raggiunto il padre, dal momento che non si vedevano da più di un anno e quindi avrei dovuto aspettare una data incerta dell’anno nuovo.
Prima di far scivolare via il giorno del mio debutto in società, rilessi ancora una volta la lettera dei miei genitori: scese qualche lacrima, ma la cosa bella fu che c’era sì la lacrima, ma il sorriso questa volta non ne aveva voluto sapere di andarsene. Non male come inizio da diciottenne.

Nessun commento:

Posta un commento