CAPITOLO 5 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri
Martin Luther King disse: "Nulla al mondo è più pericoloso di un'ignoranza sincera ed una stupidità coscienziosa"


 
Un sottile spiraglio di luce filtrava attraverso la finestra, illuminando la mia stanza. Mi svegliai prima del suono della sveglia. Mi diressi in cucina per preparare la colazione: sul tavolo c’era un biglietto.
“Porto Sveva all’asilo, passo dall’avvocato per firmare dei documenti e poi vado al lavoro. Ti ho firmato la giustifica. Non voglio firmarne altre per almeno un mese. Buona giornata.
p.s. con Enrico tutto sotto controllo”
Ci rimasi male, speravo di fare colazione con lei. Sorseggiai il caffè bollente, guardando Magnum PI, mi vestii e andai a scuola. Sul serio.

“Bella Matilde, ti si rivede a scuola!” esclamò Filippo dandomi una leggera pacca sulla spalla. Il suo alito sapeva di sigaretta.
“Sono stata assente solo un giorno…!” feci notare;
“Sì, ma non un giorno qualunque: il secondo giorno di scuola! Ieri la Ferrari continuava a fissare il tuo banco vuoto!”
“Sarà stata solo contenta di non vedermi! E’ odiosa, hai visto quanto se la tira e quanto crede di essere brillante?”
“Ma se lo può permettere! Ci sa proprio fare, altro che la Molinetti. Almeno le sue ore ti coinvolgono, quelle della Molinetti erano interminabili!”
Erano tutti entusiasti della Ferrari, tranne la sottoscritta. Era più forte di me: non riuscivo a sopportarla. La cosa, però, era reciproca.
Il rumore dei suoi tacchi preannunciò il suo arrivo: pochi secondi dopo comparve sulla porta.
Chiese a Matteo se poteva andarle a prendere il caffè macchiato delle macchinette, che secondo lei era più buono di quello del bar.
Non fece in tempo a terminare la domanda che Matteo era già fuori dalla classe:
“I soldi!”
“Non si preoccupi ho le tasche piene di monete!”
La Ferrari lasciò comunque sulla cattedra, i cinquanta centesimi che gli avrebbe restituito, una volta tornato in classe.
La osservai molto attentamente: indossava una camicia oxford azzurra, che, ammetto le stava molto bene, dei newyorkini neri e un paio di decoltè nere, che l’alzavano di qualche centimetro. Era ancora decisamente abbronzata e le poche rughe del viso, mi portavano a dire che non avesse più di quarant’anni. Occhi marroni, truccati sul verde e capelli biondo scuro, tenuti raccolti da una matita. Se li avesse tenuti sciolti avrebbero sfiorato a mala pena la spalla.
Si sedette sulla cattedra e cominciò a sfogliare il libro di storia. Poi volse lo sguardo nella mia direzione:
“Ma buon giorno! Quale onore averti di nuovo tra noi”
Il sarcasmo non la mollava un secondo, o forse era lei a non volerlo mai mollare. Pensai a una risposta d’effetto, non mi venne in mente nulla. Non dissi nulla.
“Bè? Hai perso la lingua? Mi sembrava che fino a ieri le parole non ti mancassero!”
I suoi occhi erano sempre puntati su di me: avevo un libro sottomano, era anche piuttosto pesante, perché non lanciarglielo contro?
“Ha lei il coltello dalla parte del manico, ricorda? Non vorrei rischiare di farmi HaraKiri solo il terzo giorno di scuola!”
La classe scoppiò a ridere. Lei non ribattè. Io mi lasciai sfuggire un sorriso di soddisfazione. Cambiò discorso.
“Vi avviso che tra esattamente due settimane ci sarà il compito di storia: voglio vedere cosa vi ricordate del programma dell’anno passato.”
“Mi sa che ho già venduto il libro!” disse Filippo, sperando di trovare una buona scusa per evitare il compito;
“Non è un problema: ti darò il mio! Non vi chiedo il dettaglio, ma le cose più importanti, incluse le date!”
Il giorno del compito non tardò ad arrivare: quando entrammo in classe, i banchi erano già stati distanziati l’uno dall’altro dalla Ferrari. Ci sedemmo e lei diede a ciascuno di noi un plico di fogli. In alto aveva lasciato lo spazio per il nome, il cognome, la classe e la data. I successivi tre fogli erano pieni di esercizi di completamento, a crocette e infine quattro domande aperte.
Sinceramente: non sapevo da che parte cominciare. Da quando era successo quel che era successo, la mia concentrazione non era più quella di una volta. Dopo un quarto d’ora con la testa china sui libri, la rete costruita dal mio pensiero non era più in grado di contenere ulteriori regole, concetti, formule e cose simili. Dovevo fare una pausa e poi un’altra e un’altra ancora. Alla fine della giornata il risultato non era certo dei migliori e quel compito ne fu la dimostrazione.
Cominciai col scrivere: Matilde Casale, V C, 21/09/1998.
Avevamo un’ora di tempo: le domande erano troppe e le lancette dell’orologio si muovevano troppo velocemente.
Risposi a tutte le domande aperte: mi guardai attorno. Perfino Filippo, che aveva venduto il libro, lo vedevo scrivere, scrivere scrivere. La sua mano si muoveva con una rapidità impressionante.
La campanella suonò: i primi due fogli erano praticamente bianchi. Già vedevo l’espressione della prof mentre correggeva il mio compito. Espressione di vero godimento.
“Avete tutti una penna rossa?” domandò senza muoversi dalla sua posizione.
Guardai nell’astuccio: la estrassi e la misi sul banco.
“Bene: ora correggiamo il compito. Ogni errore vale - 0,5 punti e verrà sottratto dal punteggio finale che è 100.”
Ci fu uno scambio di sguardi stupefatti: “Alla fine, in base al punteggio che avrete fatto, vi dirò il voto corrispondente. E’ tutto chiaro?”
“Vuole dire che saremo noi a correggere il nostro compito?”
“Sì, c’è forse qualche problema?”
“No, no” rispondemmo tutti all’unisono.
Avevamo tutti in mano la penna rossa e tutti noi, chi più chi meno, avevamo lasciato degli spazi vuoti: ci sarebbe voluta solo una frazione di secondo per inserire un V o una F, o aggiungere una crocetta e, in questo modo, aumentare il punteggio finale.
Vidi subito che qualcuno lo fece senza pensarci troppo. La penna rossa veniva abilmente sostituita da quella nera, e lo spazio bianco improvvisamente non era più bianco.
Ero combattuta: sapevo benissimo che quello che volevo fare non era corretto, che andava contro la morale, soprattutto la mia morale, quella in cui avevo sempre creduto. Alla fine, la mia mano sudata mise giù la penna rossa e afferrò con rapidità quella nera. Mi detestavo per aver fatto una cosa del genere, ma in quel momento detestavo di più la Ferrari e questo alleviò, almeno in parte, i miei sensi di colpa.
In questo modo sarei riuscita ad alzare il voto da 5 a 7, se non fosse stato per quel cretino del Dagrada, il quale prima riempì gli spazi lasciati in bianco con la penna rossa, come aveva detto la prof, poi, accorgendosi della nostra bravata, pensò bene di sbianchettare e riscrivere, quanto cancellato, questa volta con la penna nera. Quando la Ferrari ritirò i compiti si accorse della sua performance. Il suo volto sbiancò, non so se per la rabbia o per la delusione:
“Chi altro ha aggiunto anziché correggere? Avete avuto il coraggio di farlo? Ora abbiate il coraggio di ammetterlo!”
Nessuno di noi fiatò. La mia gamba iniziò a muoversi nervosamente, facendo vibrare il banco, ormai era fuori controllo. Silenzio, ancora silenzio.
“Conosco un modo per riconoscere se l’inchiostro è ancora fresco oppure no. Quindi parlate perché se lo dovessi venire a scoprire io, le cose per voi si metteranno ancora peggio!”
Non capivo se stava bleffando o era seria. Le mani pian piano si alzarono. Anche quella di Giada, la più brava di tutta la classe, si sollevò insieme alle altre e tra quelle “altre” ci fu anche la mia.
“I miei complimenti! Davvero, i miei più sinceri complimenti!” Raccolse tutti i compiti e li lanciò sulla cattedra. Si mise la cartella  a tracolla e lasciò l’aula senza dire una parola.
Era avvilita, era infuriata, era a pezzi. Lei credeva in noi, ci credeva veramente e noi, presentatasi l’occasione che metteva alla prova la nostra lealtà, avevamo cercato di imbrogliarla senza pudore.
Quando suonò la campanella delle 13.15, fui l’ultima a lasciare la classe. Non mi allettava l’idea di andare a casa. Avrei passato il pomeriggio a studiare e  riempire scatoloni, perciò raccolsi le mie cose con calma. Fu la signora Marisa, l’addetta del piano, che mi sollecitò a sbrigarmi. Rigorosamente in dialetto napoletano.
Scesi una rampa di scale: la scuola era già deserta. Feci tappa nel bagno dei professori. Ormai non doveva esserci più nessuno. Così credevo. Appena misi piede dentro, mi accorsi di non essere sola: mi avvicinai alla terza porta, era da lì che proveniva il sibilo di un pianto soffocato. La porta era socchiusa. Diedi una rapida sbirciata: riconobbi la matita usata come ferma capelli.
“C’è qualcuno?” domandò, tirando su col naso.
Non risposi. Uscii immediatamente dal bagno. Era arrivato il momento di andare a casa.
Per tutto il tragitto pensai all’episodio di quella mattina: provai pena per lei. Come poteva credere che dei ragazzi diciottenni, fortemente irresponsabili e alleati di una morale spesso distorta, potessero essere veramente cambiati in sole tre settimane, quando, alla Molinetti, non erano bastati tre anni?
Quando aprii la porta di casa, un senso di nostalgica malinconia mi assalì: mi ero dimenticata, o meglio, non volevo ricordare quanto ormai fosse spoglio il luogo in cui ero cresciuta. Non c’erano più quadri che riempissero il bianco, quasi irritante, delle pareti, le cornici che contenevano le nostre foto erano state avvolte in carta da giornale e sistemate negli scatoloni. Avevamo accatastato i libri in un angolo, pronti per essere imballati e messi via come era già stato fatto per molte altre cose.
La mia stanza vuota sembrava molto più grande e spaziosa: chissà i successivi inquilini per che cosa l’avrebbero adibita? Sicuramente non avrebbero mai potuto conoscere la mia storia racchiusa in questi pochi metri quadrati. Storia scritta in diciotto anni di vita. Mi sarei portata via quel segreto insieme a tutto il resto. Sperando solo di non smarrirlo durante il trasferimento.
Mi sporsi nel corridoio: raggiunsi lo sgabuzzino, un piccolo stanzino senza finestre. Lo aprii: mi vidi lì, seduta e accanto a me Benedetta. Lei stava pettinando Carolina, la sua bambola dai lunghi capelli rossi, io versavo l’acqua nelle tazzine di plastica rosa. Era la nostra casetta: da piccole ci passavamo le ore. La domenica lo trasformavamo in negozio e la mamma era la nostra cliente di fiducia.
Chiusi la porta del ripostiglio e passai davanti alla stanza di mamma e papà. Eccolo là il lettone: così grande, così invitante, così sicuro. Quel lettone su cui mi divertivo a saltare e in cui mi piaceva dormire.
Chiusi gli occhi: vidi scorrere davanti a me una sequenza disordinata di immagini legate a un passato che pareva essere distante anni luce da questo presente, alquanto inverosimile, a cui ancora dovevo abituarmi. Quando li riaprii la vista era appannata e una lacrima solitaria rigò il mio viso.
Il telefono cominciò a squillare: odiavo quel rumore, lo odiavo con tutta me stessa. Ero ossessionata da quel suono, stava diventando un vero incubo.
“Pronto?”
“Matilde?”
“Sì, sono io, chi parla?”
“Ho trovato un oggetto che credo ti appartenga!”
Frugai velocemente nella borsa, che per fortuna era a portata di mano. Ebbi un flash: io che entravo nel bagno dei professori con il cellulare in mano e che uscivo senza. Ma certo l’avevo appoggiato sul bordo del lavandino. In quello stesso istante capii chi c’era dall’altra parte della cornetta:
“Prof Ferrari? Per caso si tratta del  mio cellulare?”
“Esatto! E perché quando ho chiesto se c’era qualcuno tu non hai risposto? Avevi paura che ti potessi mangiare?”
“Ha beccato il momento sbagliato per provocarmi: sono nel bel mezzo di un trasloco! Comunque la ringrazio per il cellulare!”
“Mi farebbe piacere conoscere i tuoi genitori e magari condividere con loro il problema della tua fastidiosa arroganza. Quindi dì loro che non appena i colloqui saranno aperti li vorrei vedere!”
Con i miei genitori? Possibile che non le avessero detto nulla?
 “Se lei conosce un modo per mettersi in contatto con l’al di là, li avviso più che volentieri!”
Era incredibile quanto triste sarcasmo ci fosse nei nostri dialoghi.
“Matilde, mi stai prendendo in giro?” Il tono della sua voce si fece serio.
“I miei genitori sono morti in un incidente d’auto nemmeno un mese fa: il 31 Agosto!”
Anche il tono della mia voce divenne serio: non ci trovavo niente di divertente in quella che potrei chiamare: dolorosa ironia del destino.
“Mi dispiace, Matilde, credimi mi dispiace moltissimo. Io non ne sapevo niente!”
Era la prima volta che sentivo parlare il suo cuore: “Le credo!”
“Ci vediamo domani a scuola!”
“A domani!”
Mi ero stufata di stare a casa: afferrai la felpa di Paolo e raggiunsi l’oratorio dove si allenavano.
Quando arrivai, Filippo non c’era ancora: vidi qualcuno che aveva già cominciato a fare gli esercizi di riscaldamento. La porta dello spogliatoio venne aperta: Paolo mi apparve inaspettatamente davanti. La maglietta bianca che indossava risaltava ancora di più la sua carnagione scura.
“Matilde?!” domandò sorpreso;
“Paolo!” Non sapevo cosa dire, o meglio avrei avuto mille cose da dirgli, ma in quel momento non me ne venne in mente neanche una.
Ci guardammo per un attimo: “Scusami per l’altro giorno. So di aver esagerato e come sempre me ne accorgo quando ormai il danno è fatto.”
“Io, invece, ti ho portato una cosa che ti appartiene e che quel giorno mi sono dimenticata di restituirti, perché troppo concentrata a prendermela con di te!” Mi sorrise.
Dalla borsa estrassi la sua felpa. Nella manica avevo nascosto un biglietto, che diceva pressappoco così:
“Tuo padre combatte perché TU possa vivere in un mondo migliore. Per noi lui è un eroe, per lui, tu sei la sua forza!”
“Grazie, credevo che non sarebbe più stata mia!” esclamò, facendomi l’occhiolino, “Sai che da quel giorno, ogni volta che c’è stato il temporale ti ho pensato?” 
“Ehi Matilde non mi aspettavo di vederti qui!”
Mi voltai di colpo: “F-Filippo!”
Indicai la felpa: “Ero venuta per portargli quella!”
Rivolsi lo sguardo di nuovo verso Paolo: “E’ meglio che vada! Gli altri si stanno già riscaldando!”
Diedi un bacio a Filippo: “Noi ci vediamo più tardi!”
Avevo ormai raggiunto l’uscita quando qualcuno mi afferrò il braccio:
“Paolo, cosa stai facendo?”
“Domenica verrai a vederci giocare? Ci terrei molto!” I suoi grandi occhi sinceri sembravano confermare quanto mi aveva appena detto.
“Non lo so e ora lasciami andare perché non voglio che Filippo ci veda ancora insieme!”
Quando tornai a casa non ero più sola:
“Benedetta, già a casa?”
Mi comparve davanti con un bicchiere di wisky, guardai il tavolo e la bottiglia era stata praticamente svuotata: “Ma non senti che Sveva sta piangendo?”
 “E’ il caso che anche lei impari a cavarsela da sola!”
“Ha solo un anno e mezzo! E ora dammi quel bicchiere!”
Oppose resistenza: “Scommetto che in tutto questo c’entra Enrico!”
“Enrico, la casa, il lavoro, i soldi, Sveva, tu!”
La vedevo ondeggiare, faceva fatica a rimanere ferma nella stessa posizione:
“Eliminami pure dal tuo elenco di responsabilità! Mi dispiace che tu mi veda solo come un peso e non come una spalla su cui poter contare…è la tua stupida visione del mondo: tu contro tutti! E ora è meglio che vada da Sveva!”
Mi diressi verso la sua stanza:
“Matilde, io ho paura: ho paura dei giorni che verranno, ho paura di non farcela ad andare avanti!”
Mi voltai: “Credimi non sei l’unica!”

Presi in braccio Sveva e la portai nella camera dei miei genitori, dove l’unica cosa rimasta era il lettone, in mezzo alla stanza. Mi sdraiai accanto a lei, iniziai a farle i grattini sul braccio, sapevo che l’avrebbero calmata. Vidi la sua mano cercare la mia. Mi afferrò il pollice e lo strinse forte. I suoi occhietti stracolmi di lacrime si abbandonarono ad un sonno profondo. Poco dopo sentii il cigolio della porta: Bendetta entrò nella stanza, indossava la sua camicia da notte preferita: le feci spazio. Delicatamente s’infilò sotto le coperte. Questa volta fui io a cercare la sua mano e a stringergliela forte.

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