Foto di Cristina Barbieri |
Mahatma Gandhi disse: "La vita non è aspettare che passi la tempesta… ma imparare a ballare sotto la pioggia."
La mattina successiva mi alzai a fatica: mia sorella non voleva saperne di scendere dal letto e cominciare una nuova giornata. Mi sdraiai per qualche minuto vicino a lei. La vedevo così grande rispetto a me, ero affascinata dal suo mondo, dalla sua vita, dalla sua determinazione e vederla così disperata e avvilita mi faceva male.
Le strinsi la mano, mi ricordo che gliela strinsi forte: “Non sei sola! Vedrai che ce la faremo! Dobbiamo resistere e avere tanta pazienza!” le dissi;
Riuscii a strapparle un sorriso: “Da quando sei diventata così ottimista?”
“Credo da quando ne ho sentito il bisogno di esserlo!”
Scivolò fuori dal letto e andammo in cucina dove avremmo celebrato il nostro abituale rito del caffè.
“Oggi ho un altro colloquio in uno studio di architetti …. come segretaria s’intende!”
“Vedrai che verranno subito catturati dal tuo fascino!” dissi cercando di caricarla emotivamente.
“Speriamo, Matilde, perché ti assicuro che abbiamo veramente bisogno di quel lavoro! Nel pomeriggio passo da Enrico – il suo ex ragazzo – perché so che sua madre stava cercando qualcuno a cui affittare un bilocale!”
Quando sentii la parola “bilocale” ebbi una fitta al cuore: avevo sperato fino all’ultimo che la conversazione della sera prima fosse stato solo un terribile incubo, ben lungi da essere reale, ma quell’illusione durò poco.
Benedetta si mise a tracolla la borsa nera di Orciani e poi prese in braccio Sveva, afferrai lo zaino ed uscimmo di casa.
“Vado: porto Sveva all’asilo e poi parto all’attacco!”
“In bocca al lupo, in culo alla balena e che dio ce la mandi buona!”
Prendemmo direzioni differenti: quella mattina andai a scuola a piedi, avevo voglia di camminare e godermi quella leggera brezza mattutina di fine estate. Ovviamente non feci in tempo a compiere il primo passo che la testa si riempì di pensieri, che cercai inutilmente di allontanare: a casa stavo male, con Filippo le cose non stavano più funzionando come una volta e d’ora in avanti a scuola avrei dovuto fare i conti con quella gran simpaticona della Ferrari, laureata non in lettere, ma in tuttologia.
Arrivai a scuola stranamente in anticipo e ne approfittai per andare al bar con l’idea di ordinare un cappuccio, con tanta schiuma e una spolverata di cacao, se non fosse stato che ad ordinarlo prima di me c’era la Ferrari: ero ancora in tempo per andarmene senza essere notata, ma il tempismo talvolta gioca brutti scherzi, infatti in quel preciso istante si girò e mi vide.
“Matilde! Anche tu mattiniera?”
“Se fosse per me a quest’ora sarei ancora nel mondo dei sogni” risposi in tono freddo e distaccato; “Ieri non sei stata dal vicepreside, vero?”
“E lei si è accorta che la sua reazione è stata esagerata, vero?” ribattei fastidiosamente.
“Accidenti dai proprio del filo da torcere! Ti dico una cosa, Matilde: così, con me, non funziona! Ricordati che chi ha il coltello dalla parte del manico sono io, non tu, chi può prendere provvedimenti sono io, non tu… scherzare col fuoco può rivelarsi pericoloso!”
La guardai dritta negli occhi, ero così gonfia d’ira che avrei potuto spaccare il mondo in mille pezzi. “Deve arrivare alle minacce per far capire a una che ha la metà dei suoi anni, che è nel torto?!” “Non ho proprio voglia di cogliere le provocazioni di una che può avere la metà dei miei anni! Ci vediamo in classe!”
Pagò il cappuccio, afferrò la sua cartella di cuoio e se ne andò. Avrei voluto piangere di rabbia, ma ero troppo orgogliosa, e così mi lasciai cadere sulla sedia rassegnata. Nessuno notò il mio stato di forte disagio: o il mondo era diventato improvvisamente cieco o ero io a volerlo. Credo la seconda.
Corsi in classe prima che arrivasse la prof, presi lo zaino e senza farmi vedere dal custode, uscii da scuola. Non avrei resistito un secondo in più all’interno di quell’edificio.
Una volta fuori, però, non sapevo quale direzione prendere: l'andatura era così veloce che a malapena sfioravo l'asfalto, poi presi il primo autobus che passò nel vialone adiacente.
Era pieno zeppo di gente: mi guardai intorno sperando di trovare un posto libero. Erano tutti occupati. Sentii provenire dal fondo una voce assordante di una donna che inveiva contro un uomo, il quale, a parer suo, le aveva abilmente preso il posto. L’autista, nel guardare la scena attraverso lo specchietto retrovisore, scosse la testa, poi tornò a concentrarsi sulla guida.
Alla prima fermata scesero un po’ di persone: alcuni posti si liberarono, ne individuai uno proprio vicino all’uscita. Me ne appropriai.
“Secondo giorno di scuola e già te la bigi bellamente?”
Mi voltai: “E tu che ne sai che me la sto bigiando? Potrei anche essere solo in ritardo!”
“Se il tuo ritardo riguarda un volo aereo, allora ti chiedo scusa!”
“Un volo aereo?” domandai stupita;
“Guardati un po’ intorno!”mi suggerì. Mi guardai intorno: la maggior parte delle persone aveva con sé una valigia, questo dettaglio mi era sfuggito. “Non mi dire: è l’autobus per Linate?!”
“Esatto, perspicace la ragazza, comunque piacere, io sono Paolo!”
Lo osservai per qualche secondo: doveva avere circa la mia età, se non un anno in più. Aveva i capelli neri, un po’ arruffati e dei grandi occhi del colore del mare dove l’acqua è più blu. Eppure non era un volto nuovo. Prima gli strinsi la mano: “Piacere Matilde!” Poi pensai a dove potevo averlo già visto. Fu lui ad anticiparmi: “Io ti ho già visto!”
“Stavo pensando la stessa cosa!” Mi bastò un secondo e tutto mi fu chiaro: “Tu sei l’attaccante del GS Vittoria!” esclamai. Sorrise:
“E tu sei la ragazza di Filippo!” Annuii: rimasi felicemente sorpresa per quell’incontro.
“Come mai hai pensato bene di fare fuga da scuola?”
“Sbaglio o non sono stata l’unica ad aver avuto quest’idea?!”
“Mah chissà…non confermo, né smentisco!”
Dallo zaino tirò fuori un pacchetto di sigarette, ne prese una e se la mise dietro all’orecchio, ne prese un’altra e se la mise in bocca;
“Alla prossima dobbiamo scendere!”
“Dobbiamo?”
“Sì, mi sembri un po’ imbranata, senza offesa, è che non mi dai l’idea di essere una che se la bigia spesso, anzi magari questa è la prima volta!”
Ci pensai un attimo: “Vado sempre in manifestazione!”
Paolo si mise a ridere: “Quelle non contano…!” Il ragazzo mi fece cenno di alzarmi. Mi spostai. Poco dopo l’autobus si fermò e le porte si aprirono. Paolo scese, poi si voltò verso di me: “Allora? Che aspetti?” mi esortò, prima che le porte si richiudessero. Mi allungò una mano: “Ti prometto che tornerai a casa sana e salva!” Mi accorsi che quando sorrideva gli comparivano due fossette ai lati della bocca: esitai un attimo, ma alla fine decisi di seguirlo e gli afferrai la mano.
Guardai il cielo: le nubi avevano oscurato il sole. In lontananza si vedevano i bagliori dei lampi e dopo un istante, cominciò a cadere una pioggia leggera, quasi impercettibile.
Nessuno dei due propose di trovare un luogo dove ripararsi. Forse perché entrambi adoravamo la pioggia. Presto si sentì il rombo di un tuono, fu un frastuono tremendo: mi spaventai, se ne accorse:
“Tutto bene?” Poi mi afferrò la mano e mi
avvicinò bruscamente a lui, al momento non capii perché lo fece, il secondo
dopo vidi sfiorare metà del mio corpo da una peugeot, che viaggiava a più di
100km/h su una strada dove il massimo consentito era di 40 km/h:
“Grazie!”
Continuai a dire grazie per i
successivi cinque minuti, credo fosse per lo shock improvviso.
“Vuoi che ci sediamo in un bar
così bevi un po’ d’acqua!”
Scossi la testa: “Non vedo bar
e poi mi sono sempre piaciuti i temporali!”
Poco lontano da dov’eravamo
c’era un muretto di cemento, lo indicai: “Che ne dici?”
“Dico che è perfetto per
prendere la pioggia!”
Non lo stava dicendo per
prendermi in giro. Era serio. Allora non mi ero sbagliata.
Ci sdraiammo e restammo in
silenzio a guardare la pioggia, che ben presto si infittì. Mi piaceva aprire la
bocca e sentire le gocce sulla lingua.
“Mia nonna mi diceva che ogni
volta che baci la pioggia devi pensare a qualcuno di veramente importante, che
però è lontano da te. Secondo lei le gocce di pioggia tracciano una linea che
ti unisce a quella persona.”
“Baciare la pioggia- pensai ad
alta voce - … mi piace! Non ti credevo un romanticone!”
“Ma io non sono romantico,
direi proprio il contrario: queste parole le ha dette mia nonna, non io!”
“Sì, ma ora tu le hai dette a
me e sono certa che mentre le pronunciavi, stavi pensando a qualcuno di
veramente importante!”
Lui tacque.
Ormai eravamo zuppi, ma la
cosa non mi interessava.
“Seguimi!” mi disse, saltammo
giù dal muretto, e cominciammo a camminare in una stretta strada di campagna.
Gli scrosci d’acqua si stavano facendo sempre più violenti e le nuvole sempre
più nere.
“Ci siamo quasi! Fai
attenzione che si scivola!”
Il suo passo era veloce e io
cominciavo ad essere stanca, ma non glielo feci notare.
Pochi minuti dopo, una strada
asfaltata ci separava da un recinto di filo spinato, alto più di dieci metri.
Sentii il terreno vibrare. Alzai la testa. Un gigantesco boing 737 stava per
atterrare al di là del filo spinato: il rombo del motore rimbombava nella mia
cassa toracica.
“Ora!” esclamò Paolo e
cominciò ad urlare. In confronto a quel rumore assordante il suo urlo sembrava
il ronzio di una mosca.
Stava facendo quello che avrei
voluto fare già da tempo: anche io mi misi finalmente a gridare. Un grido
libero, che non doveva essere soffocato. C’ero io. Solo io. Alzai le braccia al
cielo, quasi lo toccavo: avevo la pelle d’oca e le lacrime agli occhi, che si
mescolavano a tutto il resto.
L’aereo era atterrato. Guardai
Paolo: mi sorrise, capì che stavo decisamente meglio. Tornammo verso la fermata
dell’autobus.
Iniziai ad avere qualche
brivido di freddo:
“Tieni, mettila tu!” mi disse,
porgendomi la felpa che aveva tirato fuori dallo zaino.
“Grazie!” la infilai, mi era
un po’ grande, ma sentivo già il calore sulla pelle.
Il silenzio venne rotto da una
domanda inaspettata:
“Lo ami?”
“Scusa??”
“Hai capito bene! Lo ami?”
E’ vero, avevo capito
benissimo, ma non riuscivo a comprendere il senso di quella domanda:
“Certo che lo amo. Se no non
ci starei insieme!”
“E’ a lui che hai pensato
quando hai baciato la pioggia?”
In realtà avevo pensato ai
miei genitori, loro sì che erano lontani. Una lontananza che andava ben oltre
la lontananza intesa da Paolo, ma non gli volevo parlare di loro. Perciò
risposi di sì alla sua domanda.
“E tu a chi hai pensato?”
“E’ inutile che te lo dica,
non potresti capire!”
“Chi te lo dice? Infondo non
mi conosci e allora come puoi esserne così sicuro?”
Ci pensò un attimo:
“A mio padre: è un militare,
in questo momento si trova in Iraq, nel deserto e non lo vedo da quasi un anno.
Tutti dicono che è un eroe, per me è solo un incosciente e un egoista.”
“Incosciente forse, ma egoista
non direi: se si trova laggiù è perché si è offerto di difendere la sua patria
e di aiutare i suoi compagni.”
“Lo sapevo che non avresti
capito!”
“E allora spiegami meglio!”
“Se ami veramente qualcuno e
sai che ha bisogno di te, più di qualunque altra persona al mondo, non lo lasci
per andare in terra straniera e rischiare la vita per altre persone per le
quali conti poco più di niente!”
Non aveva tutti i torti.
“Ma come può capirmi una
ragazzina che sicuramente è la cocca di suo padre!”
Quando sentii quelle parole
uscire dalla sua bocca, il battito del mio cuore accelerò a dismisura e le mani
cominciarono a sudare, anche la fronte si fece improvvisamente calda:
“Tu dici che non ho capito
niente, invece ti sbagli: ho capito quanto sei sgradevolmente presuntuoso. Un
consiglio: Prima di parlare, pensa a quello che stai per dire, perché sono
sicura che nove volte su dieci dici solo delle gran boiate!”
Per fortuna era la mia
fermata. Presi lo zaino e scesi dall’autobus. Lui era rimasto attonito, come
pietrificato. Mi fissò dal finestrino, finchè l’autobus non ripartì.
Cercai di non pensare agli
ultimi minuti trascorsi insieme: perché rovinare tutto? Eppure quella sua
ultima frase continuava ad echeggiare nella mia testa. Solo varcata la soglia
di casa mi accorsi di avere addosso la sua felpa.
Me la tolsi e senza farci
troppo caso la lanciai sul mio letto: mi sfilai tutti i vestiti bagnati e mi
buttai in doccia, con la musica a tutto volume. Meno male era la fine della
giornata. O, almeno, così credevo.
Pensai a una buona scusa da
propinare a mia sorella, che giustificasse la mia assenza da scuola: non ero
capace di mentire a chi mi voleva bene, o se comunque ci provavo ero poco
credibile e tutta la mia
impalcatura di bugie crollava.
“Ho bigiato!” esclamai senza
pensarci troppo;
“Cosa? Matilde, è solo il
secondo giorno di scuola!”
Mia sorella era ufficialmente
incavolata.
“Lo so, ma la giornata era
partita malissimo e non ce l’avrei fatta a sopportare cinque lunghe ore…sarei
impazzita!”
“Per questa volta non dico
niente solo perché… - lasciò in sospeso la frase per aumentare la suspance –
perché ho un lavoro!!! Matilde mi hanno preso, hanno scelto me!!!
“Oh mio diooooo!!!! Grande,
grande!!!! Anche se però non avevo dubbi!” l’abbracciai forte, poi mi ricordai
che c’era una seconda cosa che doveva dirmi:
“Ho parlato con la mamma di
Enrico, mi ha fatto un buonissimo prezzo: a fine mese ci trasferiamo! So che
sarà per entrambe un duro colpo, ma, contando i risparmi e quanto guadagnerò,
abbiamo un budget mensile di 1700 euro, abbastanza per vivere un po’, ma nemmeno lontanamente
sufficiente per comprare un monolocale!”
Benedetta uscì nuovamente per
andare a prendere Sveva e a comprare qualcosa per la cena. Io ne approfittai
per rilassarmi sul divano: non feci in tempo a toccarlo che caddi in un sonno
profondo. Quando riaprii gli occhi, vidi una sagoma seduta di fronte a me. Misi
a fuoco: “Amore!” esclamai;
“Ehi dormigliona, finalmente
ti sei svegliata! Sai che ore sono?” Scossi la testa, mi sfuggì uno sbadiglio.
“Le nove! Benedetta mi ha
detto del lavoro…sono contento. Ho apparecchiato per quattro: mi sa che c’è
anche Enrico.”
“Enrico?!” balzai in piedi e
corsi in cucina;
“Cosa ti salta in mente? Ti
ricordi quanto, quell’idiota ti ha fatto soffrire o vuoi che ti rammenti
qualche episodio storico?”
“Ben alzata!” disse lei con
tutta calma;
“Mi hai sentito?”
“Non ti preoccupare siamo solo
amici e poi devo ringraziarlo per la casa!”
“Amici…” ripetei. Quella
ragazza era tanto intelligente quanto testarda: proprio un’ariete. Guardai cosa
stava cocendo sui fornelli: l'intenso profumo dello zafferano presto si diffuse
in tutta la stanza.
Per andare in camera mia,
passai davanti alla stanza di Sveva: entrai in punta di piedi. Lei era lì,
sdraiata nel suo soffice lettino, con il dito in bocca e la copertina di linus
ben stretta nell’altra mano. Aveva un’espressione così tenera e tranquilla.
Sembrava un angioletto. Le diedi un bacino sulla fronte, poi, sempre con
delicatezza le coprii le gambe con il lenzuolo a fiorellini che la mamma le
aveva ricamato qualche mese prima. Dicono che nel primo anno di vita il bambino
cresca più in fretta che in qualsiasi altro periodo: a due mesi sorride, ride e
fai dei versi con la bocca, a sette mesi impara a sedersi da solo, a nove mesi
a spostarsi strisciando per terra alla scoperta del mondo che lo circonda e
finalmente a un anno è in grado di stare in piedi e compiere i suoi primi
passi.
Poi pensai a Benedetta: perché
doveva farsi del male? Non ne aveva già abbastanza? Sapeva di non averlo ancora
dimenticato, sapeva che una parte di lei era innamorata di quel ragazzo a cui
tre anni prima aveva dato il suo cuore e sapeva anche che quando qualcosa si
rompe è difficile che ritorni come nuova, eppure tutta questa razionalità,
davanti ad Enrico svaniva nel nulla.
Alle 9.30 eravamo tutti e
quattro seduti a tavola: il silenzio era quasi imbarazzante. Nessuno sembrava
aver niente da dire. Fu Filippo a
prendere la parola, facendomi l’unica domanda che, almeno per il momento, avrei
voluto non mi facesse:
“Com’è andato il secondo
giorno di scuola?”
“Non sai che il tuo amore ha
pensato bene di bigiarsela?”
Fulminai mia sorella con lo
sguardo, peggio ancora: la incenerii. Solitamente si faceva gli affari suoi, ma
per qualche strano motivo quella sera aveva deciso di farsi anche gli affari
degli altri.
Filippo mi guardò
esterrefatto: “Stiamo parlando della stessa ragazza? Quella con la media più
alta di tutta la scuola?”
“Eh sì! E indovina un po’ chi ho incontrato? Un
tuo compagno di squadra!”
“Davvero? Gli unici che
conosci anche tu sono Pietro e Carlo, ma, al contrario di qualcuno, oggi erano
impegnati a seguire interessanti lezioni di microeconomia!”
“Paolo!” pronunciai quel nome
tutto di un fiato, mi dimenticai quasi di respirare;
“Paolo?? Quel ragazzo è
insopportabile: si crede superiore agli altri. Ha degli atteggiamenti veramente
fastidiosi, per non parlare della sua arroganza. Prima o poi verrà cacciato
dalla squadra!”
“In effetti mi ha dato l’idea
di essere leggermente presuntuosetto, ma non credevo fosse così sgradevole!”
Sembrava non stessimo parlando
della stessa persona. Dal profilo che Filippo aveva tracciato, era uscito un
ragazzo che non somigliava al Paolo che avevo conosciuto io. O comunque, a
parte la presunzione, non avevo notato tutti questi suoi lati negativi.
“Matilde, cosa ci fa la sua
felpa in camera tua? Lui è stato qui?” Filippo pronunciò quelle parole con tono
severo. Sospirai, sapevo che una
fastidiosa discussione stava per avere inizio:
“Pioveva e bagnata com’ero,
avevo freddo. Carinamente mi ha prestato la sua felpa, tutto qui. Solo che poi
mi sono dimentica di restituirgliela! Magari gliela puoi portare tu ai prossimi
allenamenti!”
Non avevo mai visto Filippo
così geloso e allo stesso tempo, così arrabbiato.
“La prossima volta me lo trovo
a cena?” domandò in tono provocatorio;
“Dai Filippo, se ti dico che
non è successo niente non vedo
perché dobbiamo creare un problema e rovinarci la serata!?”
Gli presi la mano, gliela
baciai. Si stava calmando, il suo volto si distese:
“Hai ragione… scusami!”
Il problema era un altro:
Enrico. Non metto in dubbio che un tempo avesse amato mia sorella, ma l’aveva fatto
nel modo sbagliato: era in grado di farle toccare il cielo con la punta di un
dito e l’istante dopo di trascinarla in un vortice infernale, dal quale chi ne
usciva praticamente illeso era solo lui.
Discutevano. Litigavano. Si
cercavano. Facevano l’amore.
Questo circolo vizioso venne
spezzato esattamente un anno fa da Enrico, o meglio da queste precise parole:
“Non credo di farcela più a reggere questa situazione. Sto male, stai male e
l’amore in certi casi non basta!”
Pronunciandole era come se le
avesse strappato il cuore dal petto, lo avesse gettato a terra e calpestato
senza un briciolo di pietà: non credevo che l’amore potesse svanire da un
momento all’altro, invece così era successo ad Enrico. E’ come quando la notte
prende il posto del giorno: accade e basta. Il momento prima ti sembra che
quella luce duri per sempre e il momento dopo ti accorgi che non c’è più. Non
ci puoi fare niente: puoi piangere, gridare, scongiurare, ma la realtà non
cambia. Puoi solo aspettare e sperare che il tempo che ti separa da un nuovo
giorno, trascorra il più velocemente possibile. Infatti sono convinta che in
queste situazioni non si è sopraffatti dalla paura che la luce non torni a
risplendere. La luce esiste proprio perché esiste il buio. Ma dalla paura che
il tempo si possa dilatare al punto che i secondi diventino minuti, i minuti
ore e le ore giorni.
Filippo alle undici se ne
andò. La felpa rimase sulla sedia, la fissai. Non volevo addormentarmi, volevo
assicurarmi che una volta andato via Enrico, mia sorella fosse veramente
tranquilla come diceva. Ma nonostante tutta la buona volontà, i miei occhi,
così stanchi e pesanti, non ne vollero sapere e si chiusero lasciando spazio
solo al mondo dei sogni.
Nessun commento:
Posta un commento