CAPITOLO 4 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri


Mahatma Gandhi disse: "La vita non è aspettare che passi la tempesta… ma imparare a ballare sotto la pioggia."


La mattina successiva mi alzai a fatica: mia sorella non voleva saperne di scendere dal letto e cominciare una nuova giornata. Mi sdraiai per qualche minuto vicino a lei. La vedevo così grande rispetto a me, ero affascinata dal suo mondo, dalla sua vita, dalla sua determinazione e vederla così disperata e avvilita mi faceva male.
Le strinsi la mano, mi ricordo che gliela strinsi forte: “Non sei sola! Vedrai che ce la faremo! Dobbiamo resistere e avere tanta pazienza!” le dissi;
Riuscii a strapparle un sorriso: “Da quando sei diventata così ottimista?”
“Credo da quando ne ho sentito il bisogno di esserlo!”
Scivolò fuori dal letto e andammo in cucina dove avremmo celebrato il nostro abituale rito del caffè.
“Oggi ho un altro colloquio in uno studio di architetti …. come segretaria s’intende!”
“Vedrai che verranno subito catturati dal tuo fascino!” dissi cercando di caricarla emotivamente.
“Speriamo, Matilde, perché ti assicuro che abbiamo veramente bisogno di quel lavoro! Nel pomeriggio passo da Enrico – il suo ex ragazzo – perché so che sua madre stava cercando qualcuno a cui affittare un bilocale!”
Quando sentii la parola “bilocale” ebbi una fitta al cuore: avevo sperato fino all’ultimo che la conversazione della sera prima fosse stato solo un terribile incubo, ben lungi da essere reale, ma quell’illusione durò poco. 


Benedetta si mise a tracolla la borsa nera di Orciani e poi prese in braccio Sveva, afferrai lo zaino ed uscimmo di casa.
“Vado: porto Sveva all’asilo e poi parto all’attacco!”
“In bocca al lupo, in culo alla balena e che dio ce la mandi buona!”
Prendemmo direzioni differenti: quella mattina andai a scuola a piedi, avevo voglia di camminare e godermi quella leggera brezza mattutina di fine estate. Ovviamente non feci in tempo a compiere il primo passo che la testa si riempì di pensieri, che cercai inutilmente di allontanare: a casa stavo male, con Filippo le cose non stavano più funzionando come una volta e d’ora in avanti a scuola avrei dovuto fare i conti con quella gran simpaticona della Ferrari, laureata non in lettere, ma in tuttologia.

Arrivai a scuola stranamente in anticipo e ne approfittai per andare al bar con l’idea di ordinare un cappuccio, con tanta schiuma e una spolverata di cacao, se non fosse stato che ad ordinarlo prima di me c’era la Ferrari: ero ancora in tempo per andarmene senza essere notata, ma il tempismo talvolta gioca brutti scherzi, infatti in quel preciso istante si girò e mi vide.
“Matilde! Anche tu mattiniera?”
“Se fosse per me a quest’ora sarei ancora nel mondo dei sogni” risposi in tono freddo e distaccato; “Ieri non sei stata dal vicepreside, vero?”
“E lei si è accorta che la sua reazione è stata esagerata, vero?” ribattei fastidiosamente.
“Accidenti dai proprio del filo da torcere! Ti dico una cosa, Matilde: così, con me, non funziona! Ricordati che chi ha il coltello dalla parte del manico sono io, non tu, chi può prendere provvedimenti sono io, non tu… scherzare col fuoco può rivelarsi pericoloso!”
La guardai dritta negli occhi, ero così gonfia d’ira che avrei potuto spaccare il mondo in mille pezzi. “Deve arrivare alle minacce per far capire a una che ha la metà dei suoi anni, che è nel torto?!”   “Non ho proprio voglia di cogliere le provocazioni di una che può avere la metà dei miei anni! Ci vediamo in classe!”
Pagò il cappuccio, afferrò la sua cartella di cuoio e se ne andò. Avrei voluto piangere di rabbia, ma ero troppo orgogliosa, e così mi lasciai cadere sulla sedia rassegnata. Nessuno notò il mio stato di forte disagio: o il mondo era diventato improvvisamente cieco o ero io a volerlo. Credo la seconda.
Corsi in classe prima che arrivasse la prof, presi lo zaino e senza farmi vedere dal custode, uscii da scuola. Non avrei resistito un secondo in più all’interno di quell’edificio.
Una volta fuori, però, non sapevo quale direzione prendere: l'andatura era così veloce che a malapena sfioravo l'asfalto, poi presi il primo autobus che passò nel vialone adiacente.
Era pieno zeppo di gente: mi guardai intorno sperando di trovare un posto libero. Erano tutti occupati. Sentii provenire dal fondo una voce assordante di una donna che inveiva contro un uomo, il quale, a parer suo, le aveva abilmente preso il posto. L’autista, nel guardare la scena attraverso lo specchietto retrovisore, scosse la testa, poi tornò a concentrarsi sulla guida.
Alla prima fermata scesero un po’ di persone: alcuni posti si liberarono, ne individuai uno proprio vicino all’uscita. Me ne appropriai.
“Secondo giorno di scuola e già te la bigi bellamente?”
Mi voltai: “E tu che ne sai che me la sto bigiando? Potrei anche essere solo in ritardo!”
“Se il tuo ritardo riguarda un volo aereo, allora ti chiedo scusa!”
“Un volo aereo?” domandai stupita;
“Guardati un po’ intorno!”mi suggerì. Mi guardai intorno: la maggior parte delle persone aveva con sé una valigia, questo dettaglio mi era sfuggito.                                                                               “Non mi dire: è l’autobus per Linate?!”
“Esatto, perspicace la ragazza, comunque piacere, io sono Paolo!”
Lo osservai per qualche secondo: doveva avere circa la mia età, se non un anno in più. Aveva i capelli neri, un po’ arruffati e dei grandi occhi del colore del mare dove l’acqua è più blu. Eppure non era un volto nuovo. Prima gli strinsi la mano: “Piacere Matilde!” Poi pensai a dove potevo averlo già visto. Fu lui ad anticiparmi: “Io ti ho già visto!”
“Stavo pensando la stessa cosa!” Mi bastò un secondo e tutto mi fu chiaro: “Tu sei l’attaccante del GS Vittoria!” esclamai. Sorrise:
“E tu sei la ragazza di Filippo!” Annuii: rimasi felicemente sorpresa per quell’incontro.
“Come mai hai pensato bene di fare fuga da scuola?”
“Sbaglio o non sono stata l’unica ad aver avuto quest’idea?!”
“Mah chissà…non confermo, né smentisco!”
Dallo zaino tirò fuori un pacchetto di sigarette, ne prese una e se la mise dietro all’orecchio, ne prese un’altra e se la mise in bocca;
“Alla prossima dobbiamo scendere!”
“Dobbiamo?”
“Sì, mi sembri un po’ imbranata, senza offesa, è che non mi dai l’idea di essere una che se la bigia spesso, anzi magari questa è la prima volta!”
Ci pensai un attimo: “Vado sempre in manifestazione!”
Paolo si mise a ridere: “Quelle non contano…!” Il ragazzo mi fece cenno di alzarmi. Mi spostai. Poco dopo l’autobus si fermò e le porte si aprirono. Paolo scese, poi si voltò verso di me: “Allora? Che aspetti?” mi esortò, prima che le porte si richiudessero. Mi allungò una mano: “Ti prometto che tornerai a casa sana e salva!” Mi accorsi che quando sorrideva gli comparivano due fossette ai lati della bocca: esitai un attimo, ma alla fine decisi di seguirlo e gli afferrai la mano.

Guardai il cielo: le nubi avevano oscurato il sole. In lontananza si vedevano i bagliori dei lampi e dopo un istante, cominciò a cadere una pioggia leggera, quasi impercettibile.
Nessuno dei due propose di trovare un luogo dove ripararsi. Forse perché entrambi adoravamo la pioggia. Presto si sentì il rombo di un tuono, fu un frastuono tremendo: mi spaventai, se ne accorse:
“Tutto bene?” Poi mi afferrò la mano e mi avvicinò bruscamente a lui, al momento non capii perché lo fece, il secondo dopo vidi sfiorare metà del mio corpo da una peugeot, che viaggiava a più di 100km/h su una strada dove il massimo consentito era di 40 km/h:
“Grazie!”
Continuai a dire grazie per i successivi cinque minuti, credo fosse per lo shock improvviso.
“Vuoi che ci sediamo in un bar così bevi un po’ d’acqua!”
Scossi la testa: “Non vedo bar e poi mi sono sempre piaciuti i temporali!”
Poco lontano da dov’eravamo c’era un muretto di cemento, lo indicai: “Che ne dici?”
“Dico che è perfetto per prendere la pioggia!” 
Non lo stava dicendo per prendermi in giro. Era serio. Allora non mi ero sbagliata.
Ci sdraiammo e restammo in silenzio a guardare la pioggia, che ben presto si infittì. Mi piaceva aprire la bocca e sentire le gocce sulla lingua.
“Mia nonna mi diceva che ogni volta che baci la pioggia devi pensare a qualcuno di veramente importante, che però è lontano da te. Secondo lei le gocce di pioggia tracciano una linea che ti unisce a quella persona.”
“Baciare la pioggia- pensai ad alta voce - … mi piace! Non ti credevo un romanticone!”
“Ma io non sono romantico, direi proprio il contrario: queste parole le ha dette mia nonna, non io!”
“Sì, ma ora tu le hai dette a me e sono certa che mentre le pronunciavi, stavi pensando a qualcuno di veramente importante!”
 Lui tacque.
Ormai eravamo zuppi, ma la cosa non mi interessava.
 “Seguimi!” mi disse, saltammo giù dal muretto, e cominciammo a camminare in una stretta strada di campagna. Gli scrosci d’acqua si stavano facendo sempre più violenti e le nuvole sempre più nere.
“Ci siamo quasi! Fai attenzione che si scivola!”
 Il suo passo era veloce e io cominciavo ad essere stanca, ma non glielo feci notare.
Pochi minuti dopo, una strada asfaltata ci separava da un recinto di filo spinato, alto più di dieci metri. Sentii il terreno vibrare. Alzai la testa. Un gigantesco boing 737 stava per atterrare al di là del filo spinato: il rombo del motore rimbombava nella mia cassa toracica.
“Ora!” esclamò Paolo e cominciò ad urlare. In confronto a quel rumore assordante il suo urlo sembrava il ronzio di una mosca.

Stava facendo quello che avrei voluto fare già da tempo: anche io mi misi finalmente a gridare. Un grido libero, che non doveva essere soffocato. C’ero io. Solo io. Alzai le braccia al cielo, quasi lo toccavo: avevo la pelle d’oca e le lacrime agli occhi, che si mescolavano a tutto il resto.
 L’aereo era atterrato. Guardai Paolo: mi sorrise, capì che stavo decisamente meglio. Tornammo verso la fermata dell’autobus.
Iniziai ad avere qualche brivido di freddo:
“Tieni, mettila tu!” mi disse, porgendomi la felpa che aveva tirato fuori dallo zaino.
“Grazie!” la infilai, mi era un po’ grande, ma sentivo già il calore sulla pelle.
 Il silenzio venne rotto da una domanda inaspettata:
“Lo ami?”
“Scusa??”
“Hai capito bene! Lo ami?”
E’ vero, avevo capito benissimo, ma non riuscivo a comprendere il senso di quella domanda:
“Certo che lo amo. Se no non ci starei insieme!”
“E’ a lui che hai pensato quando hai baciato la pioggia?”
In realtà avevo pensato ai miei genitori, loro sì che erano lontani. Una lontananza che andava ben oltre la lontananza intesa da Paolo, ma non gli volevo parlare di loro. Perciò risposi di sì alla sua domanda.
“E tu a chi hai pensato?”
“E’ inutile che te lo dica, non potresti capire!”
“Chi te lo dice? Infondo non mi conosci e allora come puoi esserne così sicuro?”
Ci pensò un attimo:
“A mio padre: è un militare, in questo momento si trova in Iraq, nel deserto e non lo vedo da quasi un anno. Tutti dicono che è un eroe, per me è solo un incosciente e un egoista.”  
“Incosciente forse, ma egoista non direi: se si trova laggiù è perché si è offerto di difendere la sua patria e di aiutare i suoi compagni.”
“Lo sapevo che non avresti capito!”
“E allora spiegami meglio!”
“Se ami veramente qualcuno e sai che ha bisogno di te, più di qualunque altra persona al mondo, non lo lasci per andare in terra straniera e rischiare la vita per altre persone per le quali conti poco più di niente!”
Non aveva tutti i torti.
“Ma come può capirmi una ragazzina che sicuramente è la cocca di suo padre!”
Quando sentii quelle parole uscire dalla sua bocca, il battito del mio cuore accelerò a dismisura e le mani cominciarono a sudare, anche la fronte si fece improvvisamente calda:
“Tu dici che non ho capito niente, invece ti sbagli: ho capito quanto sei sgradevolmente presuntuoso. Un consiglio: Prima di parlare, pensa a quello che stai per dire, perché sono sicura che nove volte su dieci dici solo delle gran boiate!”
Per fortuna era la mia fermata. Presi lo zaino e scesi dall’autobus. Lui era rimasto attonito, come pietrificato. Mi fissò dal finestrino, finchè l’autobus non ripartì.
Cercai di non pensare agli ultimi minuti trascorsi insieme: perché rovinare tutto? Eppure quella sua ultima frase continuava ad echeggiare nella mia testa. Solo varcata la soglia di casa mi accorsi di avere addosso la sua felpa.
Me la tolsi e senza farci troppo caso la lanciai sul mio letto: mi sfilai tutti i vestiti bagnati e mi buttai in doccia, con la musica a tutto volume. Meno male era la fine della giornata. O, almeno, così credevo.
Pensai a una buona scusa da propinare a mia sorella, che giustificasse la mia assenza da scuola: non ero capace di mentire a chi mi voleva bene, o se comunque ci provavo ero poco credibile e  tutta la mia impalcatura di bugie crollava.
“Ho bigiato!” esclamai senza pensarci troppo;
“Cosa? Matilde, è solo il secondo giorno di scuola!”
Mia sorella era ufficialmente incavolata.
“Lo so, ma la giornata era partita malissimo e non ce l’avrei fatta a sopportare cinque lunghe ore…sarei impazzita!”
“Per questa volta non dico niente solo perché… - lasciò in sospeso la frase per aumentare la suspance – perché ho un lavoro!!! Matilde mi hanno preso, hanno scelto me!!!
“Oh mio diooooo!!!! Grande, grande!!!! Anche se però non avevo dubbi!” l’abbracciai forte, poi mi ricordai che c’era una seconda cosa che doveva dirmi:
“Ho parlato con la mamma di Enrico, mi ha fatto un buonissimo prezzo: a fine mese ci trasferiamo! So che sarà per entrambe un duro colpo, ma, contando i risparmi e quanto guadagnerò, abbiamo un budget mensile di 1700 euro, abbastanza per  vivere un po’, ma nemmeno lontanamente sufficiente per comprare un monolocale!”
 
Benedetta uscì nuovamente per andare a prendere Sveva e a comprare qualcosa per la cena. Io ne approfittai per rilassarmi sul divano: non feci in tempo a toccarlo che caddi in un sonno profondo. Quando riaprii gli occhi, vidi una sagoma seduta di fronte a me. Misi a fuoco: “Amore!” esclamai; “Ehi dormigliona, finalmente ti sei svegliata! Sai che ore sono?” Scossi la testa, mi sfuggì uno sbadiglio.
“Le nove! Benedetta mi ha detto del lavoro…sono contento. Ho apparecchiato per quattro: mi sa che c’è anche Enrico.”
“Enrico?!” balzai in piedi e corsi in cucina;
“Cosa ti salta in mente? Ti ricordi quanto, quell’idiota ti ha fatto soffrire o vuoi che ti rammenti qualche episodio storico?”
“Ben alzata!” disse lei con tutta calma;
“Mi hai sentito?”
“Non ti preoccupare siamo solo amici e poi devo ringraziarlo per la casa!”
“Amici…” ripetei. Quella ragazza era tanto intelligente quanto testarda: proprio un’ariete. Guardai cosa stava cocendo sui fornelli: l'intenso profumo dello zafferano presto si diffuse in tutta la stanza. 

Per andare in camera mia, passai davanti alla stanza di Sveva: entrai in punta di piedi. Lei era lì, sdraiata nel suo soffice lettino, con il dito in bocca e la copertina di linus ben stretta nell’altra mano. Aveva un’espressione così tenera e tranquilla. Sembrava un angioletto. Le diedi un bacino sulla fronte, poi, sempre con delicatezza le coprii le gambe con il lenzuolo a fiorellini che la mamma le aveva ricamato qualche mese prima. Dicono che nel primo anno di vita il bambino cresca più in fretta che in qualsiasi altro periodo: a due mesi sorride, ride e fai dei versi con la bocca, a sette mesi impara a sedersi da solo, a nove mesi a spostarsi strisciando per terra alla scoperta del mondo che lo circonda e finalmente a un anno è in grado di stare in piedi e compiere i suoi primi passi.
Poi pensai a Benedetta: perché doveva farsi del male? Non ne aveva già abbastanza? Sapeva di non averlo ancora dimenticato, sapeva che una parte di lei era innamorata di quel ragazzo a cui tre anni prima aveva dato il suo cuore e sapeva anche che quando qualcosa si rompe è difficile che ritorni come nuova, eppure tutta questa razionalità, davanti ad Enrico svaniva nel nulla.

Alle 9.30 eravamo tutti e quattro seduti a tavola: il silenzio era quasi imbarazzante. Nessuno sembrava aver niente da dire.  Fu Filippo a prendere la parola, facendomi l’unica domanda che, almeno per il momento, avrei voluto non mi facesse:
“Com’è andato il secondo giorno di scuola?” 
“Non sai che il tuo amore ha pensato bene di bigiarsela?”
Fulminai mia sorella con lo sguardo, peggio ancora: la incenerii. Solitamente si faceva gli affari suoi, ma per qualche strano motivo quella sera aveva deciso di farsi anche gli affari degli altri.
Filippo mi guardò esterrefatto: “Stiamo parlando della stessa ragazza? Quella con la media più alta di tutta la scuola?”
“Eh sì!  E indovina un po’ chi ho incontrato? Un tuo compagno di squadra!”
“Davvero? Gli unici che conosci anche tu sono Pietro e Carlo, ma, al contrario di qualcuno, oggi erano impegnati a seguire interessanti lezioni di microeconomia!”
“Paolo!” pronunciai quel nome tutto di un fiato, mi dimenticai quasi di respirare;
“Paolo?? Quel ragazzo è insopportabile: si crede superiore agli altri. Ha degli atteggiamenti veramente fastidiosi, per non parlare della sua arroganza. Prima o poi verrà cacciato dalla squadra!” “In effetti mi ha dato l’idea di essere leggermente presuntuosetto, ma non credevo fosse così sgradevole!”
Sembrava non stessimo parlando della stessa persona. Dal profilo che Filippo aveva tracciato, era uscito un ragazzo che non somigliava al Paolo che avevo conosciuto io. O comunque, a parte la presunzione, non avevo notato tutti  questi suoi lati negativi.
“Matilde, cosa ci fa la sua felpa in camera tua? Lui è stato qui?” Filippo pronunciò quelle parole con tono severo. Sospirai, sapevo che una fastidiosa discussione stava per avere inizio:
“Pioveva e bagnata com’ero, avevo freddo. Carinamente mi ha prestato la sua felpa, tutto qui. Solo che poi mi sono dimentica di restituirgliela! Magari gliela puoi portare tu ai prossimi allenamenti!” Non avevo mai visto Filippo così geloso e allo stesso tempo, così arrabbiato.
“La prossima volta me lo trovo a cena?” domandò in tono provocatorio;
“Dai Filippo, se ti dico che non è successo niente  non vedo perché dobbiamo creare un problema e rovinarci la serata!?”
Gli presi la mano, gliela baciai. Si stava calmando, il suo volto si distese:
“Hai ragione… scusami!”
Il problema era un altro: Enrico. Non metto in dubbio che un tempo avesse amato mia sorella, ma l’aveva fatto nel modo sbagliato: era in grado di farle toccare il cielo con la punta di un dito e l’istante dopo di trascinarla in un vortice infernale, dal quale chi ne usciva praticamente illeso era solo lui.
Discutevano. Litigavano. Si cercavano. Facevano l’amore. 
Questo circolo vizioso venne spezzato esattamente un anno fa da Enrico, o meglio da queste precise parole: “Non credo di farcela più a reggere questa situazione. Sto male, stai male e l’amore in certi casi non basta!”
Pronunciandole era come se le avesse strappato il cuore dal petto, lo avesse gettato a terra e calpestato senza un briciolo di pietà: non credevo che l’amore potesse svanire da un momento all’altro, invece così era successo ad Enrico. E’ come quando la notte prende il posto del giorno: accade e basta. Il momento prima ti sembra che quella luce duri per sempre e il momento dopo ti accorgi che non c’è più. Non ci puoi fare niente: puoi piangere, gridare, scongiurare, ma la realtà non cambia. Puoi solo aspettare e sperare che il tempo che ti separa da un nuovo giorno, trascorra il più velocemente possibile. Infatti sono convinta che in queste situazioni non si è sopraffatti dalla paura che la luce non torni a risplendere. La luce esiste proprio perché esiste il buio. Ma dalla paura che il tempo si possa dilatare al punto che i secondi diventino minuti, i minuti ore e le ore giorni.
 
Filippo alle undici se ne andò. La felpa rimase sulla sedia, la fissai. Non volevo addormentarmi, volevo assicurarmi che una volta andato via Enrico, mia sorella fosse veramente tranquilla come diceva. Ma nonostante tutta la buona volontà, i miei occhi, così stanchi e pesanti, non ne vollero sapere e si chiusero lasciando spazio solo al mondo dei sogni.






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