CAPITOLO 10 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri
Bob Marley disse: "Si sbaglia sempre. Si sbaglia per rabbia, per amore, per gelosia. Si sbaglia per imparare. Imparare a non ripetere certi sbagli. Si sbaglia per poter chiedere scusa, per poter ammettere di aver sbagliato. Si sbaglia per crescere e per maturare. Si sbaglia perchè non si è perfetti."   


“ ‘giorno Benedetta!” dissi, trascinandomi verso di lei, indaffarata ai fornelli. Mi diede un bacio sulla fronte:
“Ciao Matilde! Il caffè è quasi pronto!”
Alle mie spalle comparve un tenero batuffolo rosa che procedeva a gattoni: Benedetta sorrise.
Andai incontro a Sveva e la presi in braccio: “Che bell’immagine: tutte e tre le sorelle Casale alle prese con la colazione!” esclamai, riempiendola di baci.
Mi aspettavo mi domandasse di Paolo, e invece non disse nulla, consumò la colazione in un rigoroso silenzio. Poi si alzò, lavò le tazze nel piccolo acquaio di marmo della cucina e andò a prepararsi.
“matilde, sbrigati!” mi esortò dal bagno;
“Guarda che mi sto vestendo!” borbottai dalla mia stanza. “ehi Benny, com’è andata la tua serata?” domandai, introducendomi in bagno e assumendo il controllo del lavandino.
“Normale!”
“Normale in senso buono o normale in senso noioso?”
“Normale!” insistette lei.
“Normale!” ripetei.
“Matilde, pensi di andare a scuola o andiamo avanti a oltranza a ripetere “normale”?”
“Ciao sorella misteriosa!” Le diedi un bacio sulla guancia e schizzai fuori dal bagno; pochi secondi dopo ricomparvi di nuovo sulla porta:
“Quindi normale?”
Benedetta, con mossa repentina, prese l’asciugamano e me lo lanciò, mi scansai: “E per la cronaca la mia è stata una bella serata!” le dissi dal corridoio.
 


Benché fisicamente mi trovassi tra le mura del mio liceo, la mia testa era da tutt’altra parte. Guardai l’ora: pochi secondi e la campanella sarebbe suonata. Mi misi a pensare a cosa stesse facendo Paolo in quel momento. Mi venne naturale domandarmi se mi stesse pensando con la mia stessa intensità. Probabilmente no, visto che sarebbe stato tutto il giorno occupato a lavorare in officina. Ne rimasi delusa.
La porta dell’aula venne aperta improvvisamente. Feci un balzo, per fortuna non se ne accorse nessuno. Il vicepreside avanzò in mezzo all’aula:
“5C oggi uscirete alle 11.30 perché non c’è la professoressa Ferrari!”
La classe scoppiò in un boato di applausi e grida: io ne rimasi fuori. Certo, c’era l’euforia di andare a casa due ore prima, eppure mi sarebbe piaciuto fare le sue lezioni, benché fossero le ultime due ore, dell’ultimo giorno della settimana. Nel baccano che mi circondava, raccolsi le mie cose e sempre in silenzio mi avviai verso la porta:
 “Ehi Matilde, manifesti sempre questo entusiasmo quando ti vengono date buone notizie?!” mi riprese Filippo, prima che potessi lasciare l’aula; mi voltai verso di lui e lo guardai con aria meravigliata:
“Eddai, tutta la scuola sa che tra te e la Ferrari non scorre buon sangue!”
“Ah sì?!”
“Terra chiama Matilde!”
“Non è poi così male! Forse l’ho giudicata troppo in fretta…” dissi alzando le spalle.
“Mi sa il contrario: mi sa che tu sei stata l’unica ad averla capita fin dall’inizio!” replicò, prese il casco da terra, mi diede un bacio sulla guancia e si precipitò fuori dalla classe come tutti gli altri.
Approfittando del tempo guadagnato, decisi di andare a trovare Paolo in officina. Gli avrei rubato solo pochi attimi, mi sarebbero bastati per stringerlo a me e fargli capire che mi era mancato.
Non ci misi molto ad arrivare, stranamente non dovetti aspettare l’autobus più di cinque minuti. Mi lasciò a pochi metri dall’entrata laterale, dove una grande insegna gialla diceva di proseguire dritto per cento metri. Una volta dentro mi guardai intorno, ma non lo vidi.
“Signorina ha bisogno di qualcosa?” mi domandò un signore con voce severa.
“Veramente stavo cercando una persona… - con esitazione pronunciai il suo nome - Paolo!”
“Mi spiace deluderla, ma oggi non c’è, lo troverà Lunedì ” spiegò, mentre maneggiava uno strano arnese con dimestichezza.
Nel sentire quelle parole i miei occhi si spalancarono per lo stupore. Mi sarei aspettata tutto tranne che quella risposta.
“Non sa dove abita?” domandai senza pensarci troppo.
L’uomo, intuendo il mio stato d’animo me lo disse: “Qui lo dico e qui lo nego!” avvertì lui, assicurandosi di essere stato chiaro al riguardo.
“Sìsì non si preoccupi. Grazie, grazie infinite!” mi voltai e di corsa uscii dall’officina.
Perché mentirmi? Perché? Continuai con insistenza a pormi quella domanda per l’intero tragitto fino a che non mi trovai di fronte al numero 12 di Via Brioschi. Feci un respiro profondo. Iniziai a leggere i cognomi sul citofono. Niente da fare: poteva essere Rossi, Castaldi, Dionigi, Mazzotti, Cavelli, Pisacane, Noci, Perrini: “Maledizione!”
Fortunatamente una donna uscì pochi istanti dopo:
“Buon giorno, sono una compagna di università di Paolo…” mi interruppe prima che potessi inventarmi qualunque cosa pur di sapere a che piano abitasse;
“Ah sì, il figlio della signora Castaldi…prego, prego!” mi fece cenno di entrare.
“Non è che mi sa dire il piano che non me lo ricordo?” chiesi cortesemente.
“Terzo piano! Purtroppo l’ascensore è fuori uso!”
La ringraziai, mi diressi verso le scale. Sentii la porta chiudersi alle mie spalle. Mi aggrappai al corrimano e cominciai a salire i gradini a due a due. Dopo la quarta rampa di scale presi fiato: ne mancavano ancora due e io non avevo la minima idea di cosa dirgli. Decisi di improvvisare: la rabbia che avevo dentro mi portò a suonare il campanello con sicurezza.
La porta venne aperta:
“Matilde???”
Lo afferrai per un braccio e lo trascinai sul pianerottolo:
“Non dovevi lavorare tutto il giorno all’officina??? Paolo, perché mi hai mentito, perché non dirmi la verità? Ero convinta di potermi fidare di te e invece…
“E invece?” insistette lui.
“E invece aveva ragione Filippo….”
Paolo mi fissava in silenzio. Io sentii l’adrenalina entrarmi in circolo e scivolare in tutto il corpo. Ero infuriata, ero delusa e lui non diceva nulla.
“Maledizione, vuoi dire qualcosa?!”
“Mi hanno chiamato nell’esercito: mia madre mi ha fatto trovare la lettera sul tavolo della cucina ieri sera. E stamattina ho avvisato che non sarei andato al lavoro. Parto tra cinque giorni.”
I suoi occhi non avevano il coraggio di guardarmi, li abbassò.
“Devo essermi persa qualcosa: tu non eri quello che non concepiva il fatto che il proprio padre fosse lontano da casa, lontano dalle persone che gli vogliono bene veramente? E ora cosa fai? Molli tutto e tutti e te ne vai anche tu? Non pensi a tua madre? A tuo nonno?....A me? Alla vita che lasci per qualcosa in cui non credi abbastanza?”
“Se mio padre l’ha fatto, un motivo deve esserci ed è giunto il momento che lo capisca. Ti giuro, Matilde, che sto male all’idea di dovermi allontanare da te ora che finalmente ti ho trovata. Ma non posso fare altrimenti. E’ la vita e tu sai bene quanto possa essere ingiusta!”
Rimasi lì in silenzio a fissarlo.  Non sapevo più cosa dire. Mi sembrava tutto così incredibilmente assurdo. Un’altra persona sarebbe dovuta uscire dalla mia vita di lì a pochi giorni e io non avrei potuto fare nulla per fermarla, solo guardarla allontanarsi da me.
“Ti odio, Paolo!” esclamai, correndo verso di lui con le mani serrate in pugni; lui mi strinse tra le sue braccia. Cos’altro avrebbe potuto fare?
“Mi odio anche io…non sai quanto!” mi confessò.
Scoppiai in un pianto disperato: non poteva lasciarmi. Non ora che le cose tra noi erano quasi perfette. Il suo abbraccio così caldo, così tenero e così dolce, riuscì a tranquillizzarmi.
“Ti direi di entrare ma c’è mia madre!”
“Vorrei conoscerla!”
“Perché?” mi domandò sorpreso.
“Perché è la tua famiglia. E’ lei che ti ha cresciuto e benché tu sia convinto che l’abbia fatto nel modo sbagliato, se oggi sei così in gamba è anche per merito suo!”
“Ti ho detto che è taciturna, sì insomma di poche, oserei dire pochissime parole?”
“Sì, ma non importa. La cosa non mi spaventa!”
Mi prese per mano ed entrammo.
Percorremmo un lungo corridoio che ci avrebbe condotto alla cucina: la porta era accostata.
Paolo varcò la soglia per primo: la madre era seduta su una grande sedia a dondolo di legno intenta a lavorare a maglia. Non me la immaginavo così giovane e così bella. Ricordo che i suoi folti capelli neri erano raccolti in una strana mezza coda di cavallo.
“Mamma, c’è una persona che ti vorrei presentare!”
Mi avvicinai a lei:“Piacere, io sono Matilde!”
Mi strinse la mano, mostrò un sorriso sottile, quasi imbarazzato.
“Mi scusi se non l’abbiamo avvisata prima, ma sono stata io che ho insistito tanto per conoscerla!”
“Non ti preoccupare, sono felicemente lusingata di questo incontro. - Ci fu un attimo di silenzio - Ti andrebbe una tazza di te?” mi domandò poi.
“Sì, volentieri.”
Mi voltai verso Paolo, mi sorrise.
Nell’attesa che la teiera cominciasse a borbottare, mi guardai intorno: non una foto, non un quadro, non un soprammobile. Solo un cestino di mele rosse rompeva la fredda monotonia che lo circondava.
Finalmente le tazze vennero riempite e la bevanda consumata in silenzio.
“Mi sarebbe sempre piaciuto imparare a lavorare a maglia!” esclamai, guardando la sciarpa che con lavoro molto accurato stava facendo la madre di Paolo, prima che la interrompessimo;
“Mi rilassa molto!” spiegò lei, “Se hai un minuto ti faccio vedere una cosa!”
Si alzò dalla sedia, appoggiò la tazza sul tavolo e si diresse nella stanza accanto, Paolo mi fece cenno di seguirla.
Misi piede in quella che doveva essere la sua camera, che fungeva anche da studiolo. Il letto matrimoniale era disfatto solo per metà. Aprì l’anta dell’armadio: rimasi basita dalla quantità di sciarpe, cappelli, guanti, coperte, maglioni fatti da lei, lavori di una vita. Mi venne in mente Penelope che di giorno tesseva e di notte disfaceva, in attesa che il suo grande amore tornasse da lei. Sì perché gliel’aveva promesso e lei non voleva smettere di crederci.
Dopo avermi mostrato tutte le sue creazioni e raccontato tutto in proposito, tornò a racchiudersi in se stessa.
“Sono senza parole! E’ bravissima, magari un giorno se avrà voglia mi insegnerà!”
“Sei troppo gentile… infondo non ho fatto nulla di speciale. Comunque sai dove trovarmi!”
“Che sbadata, vi ho preparato il tè quando ormai è ora di pranzo!” si scusò, provvedendo subito ad estrarre pentole e padelle dalla credenza.
“No, mamma, non ti preoccupare, mangiamo qualcosa fuori!” la bloccò Paolo. In quell’esatto istante caddero a terra le pentole, che erano state mal impilate. Il tonfo fu pazzesco, per non parlare della reazione: “Ecco, vedi cosa succede a voler essere troppo gentili?? Guarda che disastro e per colpa di chi? Per colpa di un figlio ingrato a sua madre, perché non contento di averla vista lentamente morire per colpa della persona che diceva di amarla più di ogni altra cosa al mondo, ora è lui che vuole infliggerle il colpo letale!!!!! E ora per favore esci da questa casa! Vattene!!” Urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Era il grido di un amore disperato contro la consapevolezza che di lì a poco sarebbe stata sola.
Paolo afferrò il mio braccio con forza: “Andiamo!” mi esortò.
Si fissarono senza dire una parola, poi Paolo si voltò ed uscì dalla cucina. Io la guardai: lei distolse lo sguardo. “Torneranno da lei…tutti e due…sì perché anche se non la amano come lei vorrebbe, questo non vuol dire che non la amano con tutto loro stessi”
Non alzò lo sguardo, non si pronunciò, continuò imperterrita nel suo lavoro a maglia, eppure ero certa che quelle parole le aveva sentite e se le avrebbe tenute strette nell’angolo più intimo della memoria.

Una volta in macchina, Paolo era assorto nei suoi pensieri:
“Ehi, tutto bene?”
“Ti avevo avvertito che non sarebbe stato un incontro piacevole! Anche se ti ringrazio per le parole che hai detto prima di andare via…”
“E invece sono contenta di averla conosciuta. Ti ama più della sua vita e la reazione di poco fa ne è stata la chiara dimostrazione! Devi solo darle tempo!”
“Già, forse hai ragione! Ma come ci riesci?”
“Come ci riesco a fare cosa?” chiesi sorpresa.
“Ad adattarti alla gente, pur rimanendo sempre te stessa?”
Non avevo una risposta, succedeva e basta ed era la prima volta che qualcuno me lo domandasse. Se non fosse stato per lui, avrei continuato a darlo per scontato, come avevo fatto fino a quel momento.
Lo guardai per qualche istante, ci conoscevamo da così poco eppure mi sembrava di conoscerlo da sempre. Averlo al mio fianco mi dava sicurezza e mi faceva stare bene con me stessa, era la prima volta che provavo una sensazione così forte e la cosa mi spiazzava. Infilò la mano nella mia e le nostre dita si incrociarono.
“Mi hai un po’ stregato, sai? Sei comparsa così, inaspettatamente nella mia vita e ti ringrazio!”
Sentii una stretta allo stomaco e la gola secca: mi avvicinai a lui e lo baciai, con tenerezza, quasi per non spezzare l’incantesimo che si era creato.
Mi accarezzò il viso e mi strinse tra le sue braccia: avrei voluto bloccare il tempo e rimanere lì stretta nel suo abbraccio, impedendogli di allontanarsi da me.
“L’anno scorso sono stato con una ragazza che mi piaceva molto. Ero convinto di esserne innamorato, almeno era quello che mi dicevo allora. Ora non ne sono più tanto sicuro!”
Il suo sguardo si rabbuiò: “Che succede?” chiesi accorgendomene immediatamente;
“No, nulla è che pensavo che tu hai già provato questo sentimento per qualcuno…comunque non devi ricambiarmi…” lo bloccai, prima che potesse terminare la frase.
“Filippo è il passato, tu sei il presente e spero il futuro: incontrarti è stata la cosa più bella che potesse succedermi e, mio ufficiale gentil uomo, farò di tutto per dimostrartelo!” esclamai, facendogli l’occhiolino.
Passammo insieme tutta la giornata, finimmo per stare fuori fino a tardi. Avvisai Benedetta che non avrei cenato con lei, stranamente non disse nulla, a parte ricordarmi di avere due sorelle e una “casa”. La rassicurai che non me n’ero dimenticata. Nemmeno per un secondo. Colse la mia innocente ironia. Infatti concluse la chiamata dicendomi di godermi la serata.
Andammo al cinema e poi a mangiare messicano: mi riaccompagnò a casa e sulla porta ci baciammo di nuovo, e ancora e ancora. Mentre la luna vegliava silenziosa e forse anche un po’ invidiosa, su di noi.
La mattina dopo fu il mio primo pensiero, quello successivo fu l’amara consapevolezza che ci rimanevano solo quattro giorni. Cercai di allontanarlo. Ci riuscii: infatti cominciai a cantare sotto la doccia. Cosa che non succedeva da troppo tempo.
A tavola parlai solo di Paolo: “Perché sorridi?” domandai a Benedetta;
“Perché? Ci deve essere un motivo?”
“Tu non me la racconti giusta!”
“Lo ammetto, stavo pensando che è proprio vero quanto l’amore possa fare miracoli!”
Corrugai la fronte: “E chi ti dice che sia innamorata?”
“Mah, forse il fatto che parli ininterrottamente di lui, che canti sotto la doccia, che ogni volta che senti il cellulare squillare, hai il cuore che batte a mille e le mani che ti sudano… vuoi che vada avanti?”
“Direi che va bene così! Anche se non mi spiego come possa essere successo in così poco tempo!”
“Matilde, non esiste un manuale che descriva i tempi necessari per l’innamoramento: succede e basta però ti dico anche di stare attenta perché un cuore spezzato fa molto più male di una gamba rotta!”
“Ti ringrazio per questa perla di saggezza, ma ho tutto sotto controllo!”   O quasi.

Dopo pranzo andai a prendere un gelato con Paolo e passammo tutto il pomeriggio nel parco del Castello Sforzesco. Quella stessa sera venne a cena da noi, su invito ufficiale e soprattutto inaspettato di mia sorella. Rimasi meravigliata da quanto fossero in perfetta sintonia. Per un attimo pensai di essere quasi gelosa. Poi però sentii la sua mano cercare la mia e stringerla forte e questo mi bastò per confermare quanto fossi stata ingenuamente sciocca a pensarlo.
Piacque anche a Sveva, infatti lo tormentò tutta la sera con Ighi e Bondi, i suoi due migliori amici: un coniglio di pezza e una tartaruga.
Andammo nella mia stanza: spogliai Sveva e le feci indossare il suo pigiamino rosa, stranamente e per fortuna si sdraiò senza lamentarsi troppo. Sistemai le coperte, la riempii di baci e infine presi dalla mensola il suo libro preferito: “Una storia al contrario”. In tutto questo Paolo era lì, seduto sul mio letto che osservava con attenzione ogni mio gesto:  mi fece cenno di sdraiarmi accanto a lui.
“Posso leggerglielo io?” me lo domandò come se potessi anche solo lontanamente dirgli di no.
Gli porsi il libro: “Certo!”
Presi posto tra le sue braccia e lui cominciò a leggere. La sua voce era bellissima: morbida, ma allo stesso tempo profonda.
Dopo poche pagine Sveva si addormentò, Paolo lasciò scivolare il libro sul pavimento e iniziò a sussurrarmi parole dolci al mio orecchio. Restammo lì a parlare e baciarci per ore, prima di addormentarci l’uno tra le braccia dell’altro, dimenticando che il giorno successivo sarei dovuta andare a scuola. Ma non fu un problema: ci pensò Benedetta a ricordarmelo la mattina seguente, irrompendo nella mia camera, come solo un uragano forza dieci sarebbe stato in grado di fare.
“Matilde, cosa ci fa lui qui? Sono le sette e devi andare a scuola!”
Paolo scattò sull’attenti: “Chiedo scusa: ci siamo addormentati!”
“Me ne sono accorta! Va bè dai, ora preparatevi e andate, io porto Sveva al nido! Matilde due cose: spesa e farmacia. Io stasera non ci sono perché ho la cena con tutto lo studio. Sarà una palla mostruosa, ma non posso non andarci.”
Le diedi un bacio sulla guancia: “Sarà fatto tutto, capo!”
“Paolo, va tutto bene?”
Erano bastati pochi minuti perché la sua espressione in volto cambiasse completamente. Mi accorsi, però, che quell’ improvviso sbalzo di umore era coinciso con la lettura di un messaggio.
“Di chi era il messaggio?”
“Eh? Cosa? Ah di mia madre…!”
Afferrai il cellulare che aveva momentaneamente appoggiato sul cruscotto:
“Cosa stai facendo?” mi aggredì; feci in tempo a leggere il mittente prima che me lo strappasse di mano. Non era sua madre:
“Chi è Paola?”
“Sono affari miei, maledizione! Chi ti ha detto di guardare? E ora scendi che sei arrivata!”  Mi aprì la portiera:
“Hai ragione non avrei dovuto farlo!” dissi con voce tremante; lui non fiatò:
“Perché questa reazione? perchè mi fai questo?”
“Matilde, sei arrivata…è già tardi!”
Scesi dalla macchina con un nodo alla gola tale che mi sembrò di soffocare: lo guardai un’ ultima volta, sperando di udire da lui parole che mi avrebbero potuto tranquillizzare. Non fu così. Affranta e delusa chiusi la portiera e mi avviai verso l’entrata del mio liceo. Dietro di me sentii la sua macchina sfrecciare e davanti a me si prospettava una lunga giornata in salita.
Aspettai un attimo prima di entrare: Avevo gli occhi accecati dalle lacrime e non volevo che nessuno se ne accorgesse. Rimasi sola per poco: una mano ferma mi prese per una spalla e girandomi mi trovai di fronte alla Ferrari.
“Noto con piacere di non essere l’unica ad essere in ritardo! Dai, andiamo!”
Mi allungò la mano: bastò quel gesto perchè per la prima volta mi lasciai andare con lei, facendo cadere tutte le barriere che ero solita innalzare con il mondo che mi circondava e l’abbracciai. Mi strinse forte a lei e mi disse proprio quello che volevo sentirmi dire: “Non sei sola, Matilde! Ora ci sono qui io!”
Io lasciai semplicemente che le lacrime scorressero.

Non si fece sentire per tutto il giorno: non un suo messaggio, non una sua chiamata. Ero avvilita, ero demoralizzata, ero ossessionata dal suo pensiero. Benedetta non c’era e Sveva aveva bisogno di me: non avevo voglia di sentirla, non avevo voglia di coccolarla, non avevo voglia di farle tenere carezze, perhé diavolo tutto questo non poteva essere fatto a me? Trattenni il respiro e soffocai i singhiozzi: ero in uno stato di panico totale. Era come se il mio corpo si fosse completamente congelato e tutto d’un tratto vidi i miei genitori sdraiati su quegli orrendi carrelli d’acciaio, poi vidi la mia vecchia casa, così imperfettamente nostra: fino a due mesi fa le cose sembrava andassero così magicamente bene e poi cos’è successo? Non me lo ricordo! Cos’è che è andato storto? Fu una sensazione stranissima: era come se in quel preciso istante avessi preso davvero coscienza della vita che mi apparteneva, o meglio, di una vita che mi ero trovata a vivere, accettandola senza farmi troppe domande. Ora rivolevo indietro la mia vita, quella di sempre, quella che certe volte sentivo un po’ stretta, ma che mi piaceva, perché era fatta su misura, apposta per me. 
Fu il suono fastidioso del citofono a riportarmi con i piedi per terra:
“Sì?”
“Sono Paolo, ti prego aprimi!”
Schiacciai il pulsante senza pensarci troppo: aprii la porta e mi trascinai faticosamente fino alla sala, dove mi abbandonai sul divano.
Pochi istanti dopo lo sentii entrare e i suoi passi farsi sempre più vicini. Finalmente fu di fronte a me e io non ebbi alcun tipo di reazione. Non urlai, non piansi, non fiatai. Niente di niente.
“Matilde, scusami!”
“Chi è Paola?” gli feci di nuovo la domanda di quella stessa mattina;
“E’ la ragazza di cui mi dicevo essere innamorato. Ora è tornata. Quando mi ha scritto era a casa mia, con mia madre, come se questi sei mesi di lontananza non ci fossero mai stati. Non ci ho più visto. Sono andato da lei e le ho detto di sparire dalla mia vita perché ora il mio cuore appartiene a un’altra ragazza che mi fa sentire bene come nessuno mai! Matilde io voglio solo te!”
Si avvicinò, mi strinse il viso tra le sue mani calde e mi baciò. I miei occhi si chiusero e sentii una lacrima scendere lungo la guancia: era la tensione, era la commozione.
“Mi spiace, ho sbagliato a prendermela in quel modo” disse con tono affranto,
“Lo so che ti dispiace e probabilmente anche io al tuo posto avrei reagito così è solo che non credevo potesse fare così male!”
“Tieni, voglio che questa la tenga tu!” Si tolse la catenina d’argento che gli avevo sempre visto al collo e me la porse:
“Significa molto per me: me la regalò mio padre per il mio dodicesimo compleanno, mi disse che facendoci caso, le maglie di questa catenina sembrano tanti simboli dell’infinito l’uno accanto all’altro perchè  infinito è il bene che lui mi vuole. Infinito è il bene che io voglio a te!”
La indossai immediatamente: “Rimani qui stanotte? Vorrei tanto addormentarmi con te vicino!”
“Speravo me lo chiedessi!”

Il giorno dopo sarebbe stata la nostra ultima possibilità di vederci prima della sua partenza per la Sicilia e Benedetta mi diede il permesso di non andare a scuola.
Trascorremmo la mattinata nel fare insieme gli ultimi suoi preparativi, prima di pranzo lo accompagnai all’officina dove ritirò le sue cose, nonché la divisa che era stata oggetto della nostra prima discussione nata da futili incomprensioni.
Dopo pranzo passeggiammo per il parco della Guastalla senza badare a quello che ci circondava: i rumori non li percepivamo e i colori si fondevano con il cielo: c’ero io e c’era lui. E basta.
Camminammo per i vialetti di ghiaia e ci sedemmo sul bordo del laghetto, circondato da aiuole ormai spoglie. Arrivò una leggera brezza e il sole cominciava a tramontare:
“A che ora è il tuo volo domani?”
“Presto, alle sette, per di più parto da Malpensa!”
“Non sarà facile…”
Lasciai in sospeso la frase.
“Lo so, perché non lo sarà nemmeno per me…però non voglio che finisca tutto! E’ vero che le storie a distanza sono complicate, ma ti telefonerò ogni giorno, ti scriverò lettere e ti riempirò di mail a costo di diventare noioso e ripetitivo!” disse cingendomi la vita e stringendomi a lui.
“Davvero?” domandai, guardandolo in viso.
“Certo. E’ tutto ciò che per ora posso fare. E quando pioverà, bacerò ogni singola goccia e ti penserò!” mi sussurrò all’orecchio.
Scostò i capelli e mi baciò il collo: “E tu non dici niente? Non mi sembri tanto triste!”
“Ti ricordo che ho già pianto a sufficienza e so che lo farò nell’esatto secondo in cui tu ti volterai per andare via da me…. E poi non ci siamo detti e ripetuti che ce la faremo a superare questo periodo?”

Ma sarebbe stato davvero così? In quel momento avrei voluto crederci veramente, perché in cuor mio sapevo che non sarebbe stato semplice come avrei voluto e che la vita certe volte crea delle distanze difficili da colmare, soprattutto se di mezzo c’è un cuore che batte e un amore che ha bisogno di continue conferme.

Mi accompagnò a casa: sentii una fitta al cuore.
“Eccoci qui!” disse lui, mettendosi le mani in tasca e abbassando lo sguardo.
“Già…!”
Mi strinse forte e ci baciammo con la consapevolezza che sarebbe stato l’ultimo di questo capitolo delle nostre vite e la speranza che fosse il primo di una vita insieme.
“Sarà meglio che vada! Mia madre mi avrà dato per disperso!”
Annuii, si accorse che i miei occhi erano colmi di lacrime:
“Ti chiamo domani appena arrivo e poi domani sera e domani notte e poi ancora e ancora…!”
“Me lo prometti?”
“Te lo prometto!”
Mi asciugai le lacrime con la mano.
“Tieni!” gli porsi il mio snake d’argento. “Così avrai sempre qualcosa di me!” Lo aiutai ad allacciarlo.
“E’ perfetto!” esclamò guardandoselo al polso.
Salì in macchina, avviò il motore e fece manovra. Mi guardò dallo specchietto retrovisore. Mi vide voltarmi e correre in casa, dove sarei scoppiata in un pianto disperato e il dolore che batteva dentro il mio petto mi avrebbe tenuta sveglia per tutta la notte.
 
Ne avevamo passato di tempo insieme e anche da soli, più di una volta si era presentata l’occasione, eppure L’amore non lo avevamo fatto. Io non volevo e lui non si era mai permesso di andare oltre. Io non volevo per una semplice ragione: per me era ancora presto; sebbene mi sembrava di conoscerlo da una vita non volevo bruciare le tappe. In fondo nessuno ci correva dietro, era la nostra storia e stava a noi decidere come meglio tracciarla.
In realtà in una delle occasioni che si erano presentate, io credevo di essere pronta: la nudità ci appartiene, siamo noi in tutto e per tutto, nessun vestito che nasconde o risalta il nostro corpo, nessun velo che rende poco visibile le nostre forme, razionalmente belle perché imperfette. Poi però entra in gioco l’imprevedibilità delle emozioni, prima tra tutte: la paura. E la paura è una brutta bestia perché blocca, paralizza e finchè non si acquisisce un po’ di sicurezza ogni sforzo risulta vano.
“Non sono pronta! Ero convinta di esserlo, ti assicuro. Ci ho pensato molto e una parte di me vuole che succeda perché provo per te qualcosa di grande e di bello e so che per te è lo stesso. Però ora che sei qui. Ora che ti ho davanti, tutta quella sicurezza è svanita in un attimo…”
“Non importa.” Intervenne, appena smisi di parlare.
“Ma dimmi sei arrabbiato?!”
“No, tranquilla…è un passo importante e non c’è fretta nel compierlo.” Mi rassicurò dandomi una carezza. Poi mi sorrise teneramente.
Mi riallacciai i bottoni della camicia e lui indossò di nuovo la polo: mi allungò la mano, gliela afferrai e ci sdraiammo nel mio letto l’uno accanto all’altro. Le sue braccia muscolose mi stringevano a lui e come sempre mi strappavano da me stessa, facendomi stare bene.









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