CAPITOLO 7 - Lontano da chi?

Foto di Cristina Barbieri
Charles Bukowski disse: "Restare all'ufficio postale e impazzire...o andarmene e giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame."


Sapevo che Paolo il mercoledì e il sabato lavorava nell’ officina Panisi di Viale Tibaldi. In realtà lo scoprii per caso quando accompagnai mia sorella a ritirare la Polo che aveva lasciato dal meccanico il giorno prima. Me lo vidi sbucare all’improvviso, vestito con la divisa dell’officina e le tasche piene di arnesi.
“Paolo?” 
“Matilde! Speravo non mi vedessi conciato in questo modo!”
“Perché? Devo ammettere che la tuta da meccanico ti dona molto!” 
Il suo sguardo cambiò, assunse improvvisamente un’espressione dura:
“Ah capisco! E’ con la tuta da meccanico che mi vedi bene, magari ti faccio anche un po’ pena. E’ vero che  Filippo va in Bocconi e guida la Golf. ” Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni uno straccio e si pulì le mani. 
Ero completamente basita: “Ma che cosa stai dicendo? Il mio era solo un…” non  mi lasciò terminare la frase: con rabbia lanciò lo straccio per terra:
“…era solo cosa? Un complimento che potesse abituarmi meglio all’idea di doverla indossare tutta la vita? Ma cosa ne sai tu della vita? Infondo ricca come sei, otterrai tutto con uno schiocco di dita!” 
I miei occhi erano lucidi, sentii il labbro inferiore cominciare a tremare. Strinsi i pugni lungo i fianchi:
“Chi sei veramente? Il ragazzo gentile e premuroso o quello arrogante e prepotente? Sputi sentenze come se tu fossi l’unica vittima di questo mondo ingiusto. Non sai un bel niente di me e nemmeno della mia famiglia. Vivo in un bilocale con le mie due sorelle, a mala pena arriviamo a fine mese e questa la chiami vita da principessa?!?” 

Abbassò lo sguardo, capì di aver esagerato e che il suo comportamento era stato decisamente scorretto nei miei confronti.
Sapevo che di lì a poco mi avrebbe detto qualcosa, ma in quel momento la cosa non mi interessava. Volevo andarmene. Da lui, da quel posto. Mi voltai e mi incamminai verso l’uscita. 
“Matilde!! Matilde!!”
Non volevo starlo a sentire. Allungai il passo senza badargli e raggiunsi la porta che dava sul cortile dell’officina. 
Sentii i suoi passi farsi sempre più vicini, poi mi afferrò per un polso:
“Paolo, lasciami andare!” 
“Ti prego perdonami! Non so cosa mi abbia preso: oggi mi è arrivata una lettera da mio padre in cui mi diceva che non sarebbe riuscito a tornare nemmeno per Natale! Ho interpretato male le tue parole ed è stato un pretesto per sfogarmi!”
I suoi occhi, così profondi e il suo sguardo così candido, rendevano chiaro quanto fosse sincero: 
“Io non dico che sia sbagliato sfogarsi, anzi ne hai tutto il diritto, ma è il modo in cui lo fai! E’ già la seconda volta che trai tutte queste conclusioni senza conoscere le cose come stanno realmente! E così mi fai male!”
“C’è qualcosa che posso fare per farmi perdonare?” 
Mi fece quella domanda in un modo così fastidiosamente carino, che la rabbia svanì in un pugno di secondi. Rimasi sorpresa da quel fatto: con Filippo non mi era mai successa una cosa simile.
“In effetti una cosa ci sarebbe: ho sempre voluto imparare a palleggiare col pallone e chi, meglio di te, me lo potrebbe insegnare?” 
“Il cortile dell’officina è piuttosto spazioso! Ti aspetto stasera alle sette, va bene?”
 
Alle sette mi presentai in tenuta sportiva davanti all’officina, in attesa che Paolo finisse di lavorare. Tardò di soli cinque minuti:
“Eccomi! Scusami se ti ho fatto aspettare, ma dovevo assolutamente finire un lavoro entro stasera, se no il capo mi avrebbe fatto a pezzettini!”
“Per questa volta ti perdono! …Allora, dov’è il pallone?” 
“Da questa parte signorina!” disse indicando una porta di legno, dipinta di blu; la oltrepassammo e ci trovammo nel cortile interno.
“Innanzitutto ci vuole la massima concentrazione: ci sei solo tu e il pallone. E poi ci vuole equilibrio: apri le braccia e per qualche secondo rimani su una gamba sola. Fai lo stesso con l’altra gamba. Tieni sempre gli occhi chiusi.” 
Per ora di usare il pallone non se ne parlava: seguii con attenzione la sua spiegazione. Gli occhi erano sempre chiusi e stranamente  riuscii a non perdere l’equilibrio.
“Bene così! Ora arriva il difficile: usando il collo del piede, dai un leggero colpo al pallone,  in modo tale che quando ricade non sei costretta a muoverti dalla posizione in cui ti trovi adesso.” 
Lo colpii con troppa forza e soprattutto non con il collo del piede, bensì di punta. Paolo corse verso il pallone, lo fermò di petto e lo fece cadere sul piede. Cominciò a palleggiare. Mi misi a contare ad alta voce: se ad un certo punto non lo avesse fermato con le mani, avrebbe tranquillamente superato i cinquanta palleggi.
“Ora tocca a me!”  
“Se riesci a farne più di dieci ti offro la cena!”
“Sei convinto di vincere, vero?” 
“Ho questo presentimento!” esclamò, strizzando l’occhio.
Lo guardai con aria di sfida. Afferrai il pallone e lo lanciai in aria. Pochi secondi e cadde precisamente sul piede destro, poi di nuovo sul sinistro e così via, senza mai farlo cadere, per ben venti volte. 
Non so esattamente cosa si aspettasse da me, ma certo non di vedermi così disinvolta e sorprendentemente brava con un pallone da calcio.
“Allora, che mi dici del tuo presentimento?” domandai con soddisfazione;  
“Tu sapevi palleggiare, non è così?”
“Bravura o semplice fortuna del principiante? E’ il ragionevole dubbio che rende le cose interessanti!” 
“Conosco un locale molto carino, magari se ti va potremmo andarci insieme!”
“Mi stai forse chiedendo di uscire con te?” 
“Oh no, non mi permetterei mai di prendere una tale iniziativa… lo faccio solo perché ho perso la scommessa! … Venerdì  sera alle 8?”
“Io abito in Via Sismondi al 6… ora che ci penso non ti conosco ancora così bene, mi devo fidare?” “Se fossi in te, no!”  
Risi: “Eppure so che potrei farlo!”
“Sul serio?” 
“Sì”

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