Foto di Cristina Barbieri |
Sapevo che
Paolo il mercoledì e il sabato lavorava nell’ officina Panisi di Viale Tibaldi.
In realtà lo scoprii per caso quando accompagnai mia sorella a ritirare la Polo
che aveva lasciato dal meccanico il giorno prima. Me lo vidi sbucare
all’improvviso, vestito con la divisa dell’officina e le tasche piene di
arnesi.
“Paolo?”
“Matilde! Speravo non mi
vedessi conciato in questo modo!”
“Perché? Devo ammettere che la
tuta da meccanico ti dona molto!”
Il suo sguardo cambiò, assunse
improvvisamente un’espressione dura:
“Ah capisco! E’ con la tuta da
meccanico che mi vedi bene, magari ti faccio anche un po’ pena. E’ vero
che Filippo va in Bocconi e guida
la Golf. ” Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni uno straccio e si pulì le mani.
Ero completamente basita: “Ma
che cosa stai dicendo? Il mio era solo un…” non mi lasciò terminare la frase: con rabbia lanciò lo straccio
per terra:
“…era solo cosa? Un
complimento che potesse abituarmi meglio all’idea di doverla indossare tutta la
vita? Ma cosa ne sai tu della vita? Infondo ricca come sei, otterrai tutto con
uno schiocco di dita!”
I miei occhi erano lucidi,
sentii il labbro inferiore cominciare a tremare. Strinsi i pugni lungo i
fianchi:
“Chi sei veramente? Il ragazzo
gentile e premuroso o quello arrogante e prepotente? Sputi sentenze come se tu
fossi l’unica vittima di questo mondo ingiusto. Non sai un bel niente di me e
nemmeno della mia famiglia. Vivo in un bilocale con le mie due sorelle, a mala
pena arriviamo a fine mese e questa la chiami vita da principessa?!?”
Abbassò lo sguardo, capì di
aver esagerato e che il suo comportamento era stato decisamente scorretto nei
miei confronti.
Sapevo che di lì a poco mi
avrebbe detto qualcosa, ma in quel momento la cosa non mi interessava. Volevo
andarmene. Da lui, da quel posto. Mi voltai e mi incamminai verso l’uscita.
“Matilde!! Matilde!!”
Non volevo starlo a sentire.
Allungai il passo senza badargli e raggiunsi la porta che dava sul cortile
dell’officina.
Sentii i suoi passi farsi
sempre più vicini, poi mi afferrò per un polso:
“Paolo, lasciami andare!”
“Ti prego perdonami! Non so
cosa mi abbia preso: oggi mi è arrivata una lettera da mio padre in cui mi
diceva che non sarebbe riuscito a tornare nemmeno per Natale! Ho interpretato
male le tue parole ed è stato un pretesto per sfogarmi!”
I suoi occhi, così profondi e
il suo sguardo così candido, rendevano chiaro quanto fosse sincero:
“Io non dico che sia sbagliato
sfogarsi, anzi ne hai tutto il diritto, ma è il modo in cui lo fai! E’ già la
seconda volta che trai tutte queste conclusioni senza conoscere le cose come
stanno realmente! E così mi fai male!”
“C’è qualcosa che posso fare
per farmi perdonare?”
Mi fece quella domanda in un
modo così fastidiosamente carino, che la rabbia svanì in un pugno di secondi.
Rimasi sorpresa da quel fatto: con Filippo non mi era mai successa una cosa
simile.
“In effetti una cosa ci
sarebbe: ho sempre voluto imparare a palleggiare col pallone e chi, meglio di
te, me lo potrebbe insegnare?”
“Il cortile dell’officina è
piuttosto spazioso! Ti aspetto stasera alle sette, va bene?”
Alle sette mi presentai in
tenuta sportiva davanti all’officina, in attesa che Paolo finisse di lavorare.
Tardò di soli cinque minuti:
“Eccomi! Scusami se ti ho
fatto aspettare, ma dovevo assolutamente finire un lavoro entro stasera, se no
il capo mi avrebbe fatto a pezzettini!”
“Per questa volta ti perdono!
…Allora, dov’è il pallone?”
“Da questa parte signorina!”
disse indicando una porta di legno, dipinta di blu; la oltrepassammo e ci
trovammo nel cortile interno.
“Innanzitutto ci vuole la
massima concentrazione: ci sei solo tu e il pallone. E poi ci vuole equilibrio:
apri le braccia e per qualche secondo rimani su una gamba sola. Fai lo stesso
con l’altra gamba. Tieni sempre gli occhi chiusi.”
Per ora di usare il pallone
non se ne parlava: seguii con attenzione la sua spiegazione. Gli occhi erano
sempre chiusi e stranamente
riuscii a non perdere l’equilibrio.
“Bene così! Ora arriva il
difficile: usando il collo del piede, dai un leggero colpo al pallone, in modo tale che quando ricade non sei
costretta a muoverti dalla posizione in cui ti trovi adesso.”
Lo colpii con troppa forza e
soprattutto non con il collo del piede, bensì di punta. Paolo corse verso il
pallone, lo fermò di petto e lo fece cadere sul piede. Cominciò a palleggiare.
Mi misi a contare ad alta voce: se ad un certo punto non lo avesse fermato con
le mani, avrebbe tranquillamente superato i cinquanta palleggi.
“Ora tocca a me!”
“Se riesci a farne più di
dieci ti offro la cena!”
“Sei convinto di vincere,
vero?”
“Ho questo presentimento!”
esclamò, strizzando l’occhio.
Lo guardai con aria di sfida.
Afferrai il pallone e lo lanciai in aria. Pochi secondi e cadde precisamente
sul piede destro, poi di nuovo sul sinistro e così via, senza mai farlo cadere,
per ben venti volte.
Non so esattamente cosa si
aspettasse da me, ma certo non di vedermi così disinvolta e sorprendentemente
brava con un pallone da calcio.
“Allora, che mi dici del tuo
presentimento?” domandai con soddisfazione;
“Tu sapevi palleggiare, non è
così?”
“Bravura o semplice fortuna
del principiante? E’ il ragionevole dubbio che rende le cose interessanti!”
“Conosco un locale molto
carino, magari se ti va potremmo andarci insieme!”
“Mi stai forse chiedendo di
uscire con te?”
“Oh no, non mi permetterei mai
di prendere una tale iniziativa… lo faccio solo perché ho perso la scommessa! …
Venerdì sera alle 8?”
“Io abito in Via Sismondi al
6… ora che ci penso non ti conosco ancora così bene, mi devo fidare?”
“Se fossi in te, no!”
Risi: “Eppure so che potrei
farlo!”
“Sul serio?”
“Sì”
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