Foto di Cristina Barbieri |
Sergio Bambaren disse: "L'amore è anche imparare a rinunciare all'altro, a saper dire addio senza lasciare che i tuoi sentimenti ostacolino ciò che probabilmente sarà la cosa migliore per coloro che amiamo."
Da quando
avevamo combinato quel guaio disciplinare, la Ferrari non era più la stessa. Ci
trattava con freddo distacco e non accennò più ai suoi discorsi sul rispetto e
stima reciproca: noi le avevamo mancato di rispetto e lei aveva smesso di
stimarci, di credere in noi, come all’inizio. Il suo sarcasmo si fece più
tagliente e le sue reazioni molte volte eccessivamente esagerate:
“Prof, guardi che il cancellino
della lavagna è caduto a terra!”
Non lo avessi mai detto. Giuro
solennemente che questa volta il tono della mia voce non fu sgarbato, né
insolente:
“Certo Matilde che non smetti
un secondo di fare la zitella! Ho per caso chiesto dove fosse il cancellino?
Non mi sembra! Se tu ci tieni tanto a quella specie di straccio impregnato di
gesso: vieni, lo raccogli e intanto che ci sei, pulisci la lavagna!”
Vidi gli altri miei compagni
scoppiare in una risata rumorosa. Io non ci trovavo nulla di divertente. In quel
momento avrei voluto sprofondare almeno dieci metri sotto terra. Non potendolo
fare, mi limitai ad abbassare lo sguardo sul Piacere di D’Annunzio.
Era diventata ufficialmente
insopportabile: anche i miei compagni che inizialmente l’adoravano e la veneravano
come una dea caduta dal cielo, cominciarono a percepire quanto, il suo modo di
porsi, fosse spesso fastidioso e irritante.
Forse aveva la scorza dura e
il cuore tenero, forse era solo un modo per difendersi e cercare di nascondere
le sue debolezze e insicurezze, o forse era davvero così sgradevole e
indisponente, di una cosa però ero certa: all’età di 18 anni non si ha né la
voglia, né l’interesse a trovare una giustificazione per questi comportamenti.
Quindi, quando ci si trova di fronte ad una situazione del genere, il
professore viene immediatamente catalogato come acerrimo nemico.
Ogni giorno percorrevo la mia
vecchia via, guardavo le mie finestre e cercavo di immaginarmi come fosse
diventata e chi ci fosse andato ad abitare. Mi era capitato più volte di vedere
una signora, che poteva avere l’età di mia madre, stendere i panni sul quello
che era il balcone di camera mia. Invidiavo quella signora. Avrei voluto essere
al suo posto. Avrei voluto esserci io su quel balcone, come succedeva nei caldi
giorni estivi.
L’ultima volta incontrai la
nostra vicina di casa: 93 anni racchiusi in un personaggio da romanzo. Viveva
con i gatti che trovava nel quartiere e, cosa sensazionale, ascoltava musica
rock. Indossava rigorosamente la sua divisa consistente in: maglietta taglia
XXXL, pantaloni della tuta neri, calzino di spugna bianco e ciabatte Defonseca.
Usciva di casa solo la mattina presto, il suo orario spesso coincideva con il
mio quando mio papà mi accompagnava a scuola: quel giorno fu un caso che la
incontrai all’ora di pranzo.
“Matilde! Che cosa ci fai qui?
Come stanno le tue sorelle? Devi sapere che la prima preghiera del giorno che
rivolgo a Nostro Signore è sempre per voi, povere ragazze. Prego anche i vostri
genitori, pace all’anima loro, perchè possano aiutarvi ad andare avanti!”
“La ringrazio signora! Ha
proprio ragione: ciò che ci serve è una mano dal cielo! Posso chiederle una
cosa?”
“Ma certo, cara, tutto quello
che vuoi! Anche se forse ho capito cosa mi vorresti chiedere e la mia risposta
è sì! Aspettami due secondi che te lo vado a prendere!”
“Che cosa mi va a prendere?”
“Roling, il tuo preferito!”
“Oh no, signora, non sono
venuta per chiederle se mi regalava uno dei suoi gatti. Volevo sapere se aveva
conosciuto i nuovi vicini, sì insomma, che persone sono?”
“Ahhhh, come non detto! E’ una
famiglia numerosa: i coniugi Patti, con me, sono stati molto gentili e
cordiali. Il giorno stesso in cui sono arrivati, mi hanno suonato alla porta e
si sono presentati con una magnifica torta di carote.”
“Credevo che queste cose
succedessero solo nei film americani” sussurrai, convinta di non essere
sentita.
“Cosa dici, cara? Le mie
orecchie non sentono più come una volta!”
“Nulla, nulla, pensavo ad alta
voce…non volevo interromperla!”
“Bè, poi ci sono i figli, tre
maschi e una femmina, tutti pressappoco della tua età. A parte fare un po’ di
baccano la sera, mi hanno dato l’idea di essere dei ragazzi ben educati! Mi
ricorda molto la vostra famiglia: bella e felice!”
La ringraziai per tutte quelle
informazioni. Credevo che venirne a conoscenza avrebbe potuto cambiare
qualcosa. Ma non fu così. Lasciai quel posto con la malinconia di sempre.
M’infilai l’i-pod e cominciai
a camminare verso casa: i marciapiedi cominciavano ad essere coperti di foglie
secche e castagne. Ne calciai qualcuna.
Passai nuovamente davanti a
scuola: mi bloccai di colpo. Poco distante da me era parcheggiata una Punto
grigia metallizzata e seduta al volante c’era la Ferrari. La guardai: le sue
mani coprivano il suo viso. Stava piangendo. Istintivamente feci un passo verso
di lei. Poi, però, mi fermai: probabilmente ero l’ultima persona sulla faccia
della terra che in quel momento avrebbe voluto vedere. Al diavolo le paranoie:
mi dispiaceva vederla in quello stato, perciò respirai profondamente e mi
diressi verso l’auto. Bussai sul vetro del finestrino del passeggero: le
mostrai un pacchetto di fazzoletti e un quadretto di cioccolato. Ne avevo
sempre una scorta: dicono che sia la medicina del buon umore. Mi sorrise e
tolse la sicura. Aprii la portiera e mi sedetti accanto a lei.
“Al latte o fondente? Ce n’è
per tutti i gusti!” dissi, mostrandole due tavolette di cioccolato.
“Fondente!”
“Ottima scelta, visto che io
adoro il cioccolato al latte!”
Mi sorrise.
“Tra tutte le persone, proprio
tu dovevi vedermi così?”
“Bè, le è andata bene, dato
che ci ha guadagnato questo sublime nettare degli dei!” dissi, mordendo la mia
tavoletta.
“Hai ragione!”
Rimanemmo in silenzio, entrambe assorte nei nostri pensieri,
addolciti sicuramente dal cioccolato.
“Va meglio?”
Lei mi sorrise: “Dovrebbe
essere il contrario: non ho mai sentito di una alunna che consola una prof,
dici che stiamo sfiorando il patologico?”
Mi misi a ridere: “E se anche
fosse? Almeno ci distinguiamo dalla massa!”
“Ottima osservazione! …Sai
Matilde, anche io ho perso entrambi i genitori a diciotto anni. Quando
ricevetti la notizia fu come se un’improvvisa voragine mi avesse travolto. Da
quel giorno rimisi in discussione ogni genere di affetto che mi circondava,
anche quello per me stessa! Mi dovetti trasferire a Roma dalla mia sorella maggiore e rimasi lì finchè non
ottenni il trasferimento a Milano!
Mi auguro che tu abbia qualcuno che si stia prendendo cura di te!”
Non mi aspettai una
rivelazione del genere, forse avevamo più cose in comune di quanto potessi
inizialmente credere:
“Ho Benedetta, il mio sostegno
e Sveva, l’ultima arrivata, che è la mia forza! Mia mamma e Benedetta avevano
appena diciotto anni di differenza!”
Lessi sul suo volto
un'espressione più serena, ero riuscita a distrarla da qualunque fosse il
pensiero che le aveva causato quella sofferenza. Ne fui soddisfatta.
Avviò l'auto e uscì dal
parcheggio: Guida decisamente sportiva, controllai che la cintura fosse ben
allacciata. Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto, notai però che ad ogni
semaforo rosso lei mi guardava con la coda dell’occhio, come per assicurarsi
che fossi tranquilla.
Una vola arrivata, inserì le
quattro frecce e accostò in seconda fila: “Grazie Matilde!”
“Grazie a lei per il
passaggio!”
Da lontano vidi mia sorella
carica come un mulo: con una mano teneva tre sacchetti e con l’altra cercava di
spingere il passeggino. Le andai incontro.
“Credevo fossi al lavoro!”
“Oggi ho il pomeriggio libero
e ne ho approfittato per fare un po’ di spesa visto che qualcuno in questi
giorni ha la testa in un mondo parallelo! Cosa sta succedendo? Prima che
uscissi ha chiamato Filippo tre volte e l’altro giorno all’officina ho notato
come guardavi quel ragazzo!”
“Chi? Paolo? E’ solo un
amico!” risposi imbarazzata.
“Cosa stai combinando? Filippo
ti ama più di ogni altra cosa! In questo modo gli spezzerai il cuore!”
“Allora dovrei continuare a
fingere di amarlo?!”
Rimasi impressionata dalla
sorprendente facilità con cui mi uscirono quelle parole.
“E’ solo un momento di
confusione. Sono successe troppe cose, in troppo poco tempo! Vedrai che passerà
e ti accorgerai di amare Filippo più di prima.”
Afferrai con rabbia i
sacchetti: “Perché mi dici questo? Perché speri che prima o poi anche Enrico si
accorga nuovamente di te?”
Sapevo di aver detto la cosa
sbagliata nel momento sbagliato: me ne pentii il secondo dopo, quando ormai era
troppo tardi. Una volta rientrata lasciai le buste in cucina e mi diressi
nuovamente verso la porta.
“Dove pensi di andare?”
“Il più lontano possibile da
te!”
“No, Matilde, tu non vai
proprio da nessuna parte! Tu stai a casa: sistemi la spesa, pulisci la tua
stanza e fai il bagno a Sveva!”
“Da quando mi dici quello che
devo fare?”
“Da oggi! Non ho più
voglia di avere a che fare con due
bambine. E’ giusto che anche tu ti assuma le tue responsabilità!”
“Ma sei completamente
impazzita? Mi dici cosa ti prende?”
"Sono stufa e sono
tremendamente stanca: sembra che qualunque cosa io faccia, la sbaglio! Ti
ricordo che tu non sei l’unica ad aver perso entrambi i genitori. E poi chi
delle due ha dovuto abbandonare l’università per trovare un lavoro che potesse
sfamare tre bocche? Chi deve chiamare l’idraulico, quando il rubinetto del
bagno perde acqua? Chi deve chiamare il dottore quando Sveva sta male? Chi si
deve preoccupare di pagare in tempo luce e gas, per evitare di rimanere senza?”
In quel momento cominciò a
suonare il citofono: non sapevo se andare a rispondere o rimanere lì con lei.
Possibile che non capisse quanto bene le volessi? Quanto lei fosse importante e
indispensabile per me? Non perché sapevo che avrebbe chiamato lei l’idraulico o
il dottore quando ce ne sarebbe stato bisogno, ma semplicemente perché era mia
sorella: sarebbe stata per sempre parte di me, del mio passato, del mio
presente e del mio futuro. L’adoravo e avrei continuato a farlo per tutta la
vita. Forse nel modo sbagliato, forse senza mai riuscire a dimostrarglielo fino
in fondo, ma l’avrei fatto. Senza ombra di dubbio.
Andai a rispondere al
citofono, lei si chiuse a chiave in bagno. Sbattè con violenza la porta, sentii
il vetro vibrare.
“Ciao Filippo! Non ti
aspettavo a quest’ora, credevo fossi agli allenamenti!”
“Lo so, volevo farti una
sorpresa: posso rapirti per un paio d’ore?”
“Ehm- mi voltai a guardare la
porta del bagno- non saprei…”
“Come non detto…ormai sono
diventato un esperto nel fare e dire cose sbagliate nel momento sbagliato.”
Senza lasciarmi nemmeno il tempo di spiegare, si diresse verso le scale.
“Filippo, aspetta!” Gli presi
la mano, feci un respiro profondo, poi cominciai a parlare: “Non sei tu quello
sbagliato. E credo sia arrivato il momento di affrontare la situazione: vorrei
dirti che tra noi va tutto bene, ma mentirei. Tra noi non è più come prima:
qualcosa è cambiato. Non c’è più quella magia che ci teneva stretti. Ecco l’ho
detto e so che per questo mi odierai, ma non potevamo andare avanti così.”
“Ti sei innamorata di Paolo?”
Restai in silenzio:
“Allora?? Rispondimi,
Matilde!!!!” il tono della sua voce si fece più alto; i suoi occhi erano
carichi di rabbia e di dolore.
“Io non lo so!”
“Lui non ti conosce come ti
conosco io! Lui non sa che vai matta per i pop corn con il caramello. Che
preferisci la pasta lunga a quella corta. Che adori i film in bianco e nero.
Che quando sei a disagio giochi con le ciocche dei tuoi capelli. Che hai smesso
di mangiarti le unghie come fioretto perché tua sorella prendesse la patente.
Che spesso mischi il dolce col salato. Lui non sa tutte queste cose! Io sì!”
“Filippo, ti prego, non
rendere le cose più difficili!”
“D’accordo” disse infine.
Mi guardò con aria
sconcertata, poi abbassò lo sguardo e si passò una mano sui capelli ormai radi.
Quando rialzò la testa, aveva un’espressione profondamente triste. Mi guardò un
ultima volta come se sperasse di incrociare quello che un tempo era il mio
sguardo complice. Capì che non lo avrebbe trovato e si avviò nuovamente verso
le scale. Sentii i suoi passi fino a che oltrepassò il portone. A quel
punto mi precipitai alla finestra: lo vidi allontanarsi e poi scomparire.
Con gesto, quasi meccanico,
tirai fuori la spesa dai sacchetti: avevo un nodo così stretto alla gola da
togliermi il respiro. Aprii la credenza e presi un bicchiere. La mano tremava.
Lo riempii d’acqua fino all’orlo e la ingurgitai tutta di un fiato.
Sveva mi fissava con occhi
vigili: “Un giorno capirai anche tu cos’è l’amore e ne riparleremo!” le dissi,
dandole un bacio sulla fronte.
Mi sedetti sul tappeto accanto a lei e insieme
guardammo i cartoni animati. Dopo un’ora abbondante Benedetta, finalmente,
decise di uscire dal bagno: indossava un accappatoio che avrebbe potuto contenerla due
volte e con l’asciugamano si era fatta uno strano turbante in testa. Quando
Sveva la vide, si mise a ridere. Probabilmente le ricordava qualche buffo
personaggio della televisione. E vedendo prima Sveva sbellicarsi dalle risate e
poi l’immagine goffa di Benedetta, anche io mi misi a ridere.
“Mi sono persa qualcosa?” I
suoi occhi passarono da Sveva a me, entrambe non riuscivamo a smettere di
ridere e gli addominali cominciavano a fare male.
Lei corse verso di noi: iniziò
a fare il solletico a Sveva. La
sua risata rumorosa contagiò anche Benedetta, poi prese un cuscino dal divano,
mi scrutò per qualche secondo:
“Vuoi la guerra? E guerra
sia!”
Con rapidità ne afferrai uno
anche io: aveva ufficialmente inizio la battaglia. Mi alzai e corsi in camera
mia: lei mi seguì, saltò sul mio letto e cominciò a colpirmi. Tornai in
salotto, mi misi in piedi sul divano e aspettai che Benedetta si avvicinasse.
“No, il cimelio no!” esclamò,
tirandomi una cuscinata.
Sveva ci guardava divertita:
forse eravamo meglio di un cartone animato.
Stanche e con il fiatone ci
adagiammo di nuovo sul tappeto.
“Non è vero che qualunque cosa
tu faccia la sbagli! Sai, quando qualcuno mi chiede se c’è una persona che mi
piace così tanto da volerle assomigliare, io rispondo sempre: mia sorella!”
Vidi i suoi occhi brillare:
“E’ la cosa più bella che
potessi dirmi!”
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